Chiara Rovati
Nella chiesa del convento di Canepanova, in Pavia, padre Ruggeri ha tenuto molte omelie durante le messe domenicali; lo faceva con piacere poiché – disse all’amico e confratello padre Fabbretti – fin dalla prima predica nella chiesa del paese natale, tenuta nel giorno dell’ordinazione sacerdotale: “Sentii che la predicazione mi avrebbe riservato molte belle soddisfazioni” (v. Soltanto un fiore). Ci restano quelle tenute dal 1980 in poi, raccolte in quaderni conservati nell’Archivio storico della Provincia di sant’Antonio dei Frati Minori, in Milano.
Raggruppati secondo il ciclo degli anni liturgici (A, B, e C), i loro tempi (Avvento e Natale, Quaresima e Pasqua, Tempo Ordinario) e per occasioni diverse (come tridui e giornate missionarie), i testi denunciano il procedimento utilizzato dal padre: dopo aver fissato uno schema di riferimento, egli chiedeva alla segretaria, Carmen, la trascrizione fedele dello sviluppo che aveva dato allo schema nel corso dell’omelia; utilizzava in seguito più volte lo stesso testo ma rivedendolo, come segnalano le frequenti correzioni autografe. Appunti e trascrizioni portano quasi sempre un titolo; rispondono inoltre a una struttura tripartita – con introduzione, tema sviluppato, conclusioni – che emerge anche in diversi appunti, stesi a mano, come canovaccio delle conferenze.
Traeva i riferimenti più importanti dai Vangeli, che arricchiva con citazioni di autori a lui cari, fra i molti soprattutto di sant’Agostino, Kierkegaard, Dostoevskij. Si qualificava in esse come sacerdote, frate e uomo, oppure cristiano, frate e sacerdote, mai come artista. Il tema più ricorrente era l’amore che lega Cristo agli uomini e viceversa, che costruisce fraternità e rende salda la famiglia, che consente il perdono e rende capaci di essere poveri con libertà. Spesso richiamava il valore della luce. In un’omelia qui riportata, sviluppata nella chiesa di suo progetto a Rho (Milano), legò l’evento della Resurrezione alla “luce che irrompe radiosa e pacificante dalle grandi vetrate e invade tutto lo spazio”.
Non prendeva mai le distanze da chi aveva di fronte, si rivolgeva anzi agli ascoltatori chiamandoli ‘cari amici’ in una sintonia di comune destino dal timbro francescano e sorretta da animo lieto e aperto al futuro ma anche da lucido sguardo sulla, mai negata, durezza del vivere.
Per la festività di san Francesco d’Assisi
Ciclo A dell’anno liturgico – 4 ottobre
Oggi è la festa di san Francesco d’Assisi, patrono d’Italia, fondatore dei frati minori, più conosciuti con il nome di francescani. Stamattina io voglio parlarvi di Lui, anche se è molto difficile. Ed è difficile per almeno due motivi. Perché si corre il rischio di parlarne tanto per parlarne, cioè per curiosità o per godimento estetico; ma, finito il discorso, nella nostra vita non cambia niente.
Poi c’è il pericolo di ridurre san Francesco d’Assisi al santo romantico, all’innamorato della natura che parla ai fiori, agli uccelli, al fuoco e alle nuvole, come fanno i bambini e i poeti.
Il poverello d’Assisi, nelle vesti di un amabile e dolce trovatore, può certamente suscitare un godimento intellettuale. Collocato nella cornice dei Fioretti, senza dubbio attrae e piace.
Ma, cari amici, sono forse questi gli aspetti più importanti e caratteristici di san Francesco, dai quali viene a noi il suo messaggio? A noi, insoddisfatti, delusi e diffidenti di noi stessi, della società e della vita? A noi fortemente preoccupati del nostro domani e di quello dei nostri figli? Un domani che vorremmo diverso: più sereno, più giusto, più religioso, per vivere nella gioia, nella perfetta letizia e nella libertà dei figli di Dio.
Amici, san Francesco fu uno di questi uomini liberi, uno che si è fatto libero – notiamolo bene – si è fatto libero per liberare. E da che cosa san Francesco si è fatto libero?
Francesco si è liberato: dalle suggestioni delle cose materiali, dalla frenesia del piacere, del divertimento, dall’avidità di possedere, dalla sete di denaro e di guadagno. Non a parole, amici, ma a fatti. Ricordate? Figlio di un ricco mercante, giovane intelligente e affascinante, volontariamente, per amore di Dio, rinuncia a tutto. E senza gridare contro nessuno, senza condannare nessuno, i suoi beni li dona ai poveri, affinché anch’essi abbiano un pane, una sicurezza e una gioia sufficienti e anch’essi possano più facilmente sentirsi amati da Dio e dagli uomini. Amici, ricordate! La più grande esemplarità che Francesco realizzò fu quella di “sentirsi con gioia figlio di Dio” e di poter farlo sentire a tutti gli uomini. Il Cantico delle creature che tutti conoscete, “Laudato sii, mi Signore, per frate sole, per frate foco, per sora acqua, per la nostra madre terra…”, è l’inno alla gioia e alla libertà della vita, il rendimento di grazie di Francesco per aver riportato, o tentato di riportare, il mondo allo stato di innocenza come Dio aveva creato l’uomo all’inizio dei tempi e collocato nel paradiso terrestre.
Questo fu Francesco per il suo tempo. Chi lo conobbe da vicino e visse molti anni con lui, non esitò a definirlo alter Christus, “il Cristo che ritorna a camminare sulle strade del mondo “, “un uomo fatto preghiera”. In altre parole: “un essere totalmente, profondamente, intensamente di Dio”.
Noi oggi viviamo tempi difficili! Il consumismo ci ammala e ci sommerge. Ci affanniamo a volte, con quale fiato grosso, per avere tante, tantissime cose che ci facciano felici.
Non ci accontentiamo più del pane e di un tetto sufficiente; vogliamo l’automobile, il televisore, più vestiti per ogni moda e stagione; divertimenti per godere e soprattutto per dimenticare.
E c’è anche chi vuole le cose che non fanno bene al corpo e all’anima: la droga, per esempio, e chi si affanna per avere una porzione più o meno grossa di potere dimenticandoci troppo spesso che la gioia non sta qui, nell’avere tante cose materiali, ma nell’essere buoni. La felicità e la pace è l’amicizia con il Signore, la felicità è nel volerci bene tra di noi e nel voler bene al nostro prossimo.
Questo ci dice e ci insegna Francesco d’Assisi. Nella storia religiosa Francesco d’Assisi è chiamato “il poverello di Cristo”, un piccolo uomo, un povero, ma che ha ricchezze meravigliose e inimmaginabili, da dare a tutti, per fare tutti gli uomini felici. Questi tesori sono la perfetta letizia, la libertà, la pace del cuore, l’amore degli uomini tra loro e con il creato. tesori di cui tutti siamo affamati e che dobbiamo assolutamente ritrovare al più presto se non vogliamo essere irrimediabilmente perduti.
Amici, alcuni decenni fa, io ho avuto l’incarico e la fortuna di fissare il suo volto sui manifesti che avete visto agli ingressi della chiesa e sui muri della nostra città. Sul manifesto c’è anche una brevissima frase: Francesco, un volto per l’uomo. Sì, Francesco, donaci il tuo volto, i tuoi occhi, il tuo amore, la tua perfetta letizia. Ne ho tanto, estremo bisogno, io, tuo figlio. Ne hanno tanto bisogno questi tuoi devoti amici, qui presenti a celebrare la memoria del tuo beato transito dalla terra al cielo. E tu, Francesco, prendici tutti per mano e accompagnaci, senza clamore, per tutta la vita, a consolarci sempre, nella consolazione di Dio e nella consolazione degli uomini nostri fratelli, che Lui ci farà incontrare nel nostro cammino terreno.
Per la festività di san Francesco
Ciclo B dell’anno liturgico – 4 ottobre
“Francesco d’Assisi era un uomo fecondissimo, d’aspetto buono, mai indolente e mai altezzoso. Era incantevole, stupendo e glorioso nella sua innocenza, nella semplicità della sua parola, nella purezza del cuore, nell’amore di Dio, nella carità fraterna, nella cortesia, nell’aspetto angelico. Di carattere mite, d’indole calmo, affabile nel parlare, cauto nell’ammonire, fedelissimo al suo dovere e all’amicizia, accorto nel consigliare, efficace nell’operare, amabile con tutti. Di mente serena, dolce di animo, costante nell’orazione e in tutto pieno di entusiasmo. Tenace nei propositi, saldo nella virtù, perseverante nella grazia, veloce nel perdonare, lento all’ira, fervido d’ingegno, fine nella discussione, prudente nelle decisioni e di grande semplicità. Severo con sé, indulgente con gli altri.” Cari amici, così descrive Francesco d’Assisi il suo primo biografo Tommaso da Celano. Noi oggi celebriamo la sua festa e l’inizio dell’ottavo centenario della sua nascita. Dopo la santa Messa, con un rito commovente, noi rivivremo il suo beato transito, cioè gli ultimi istanti della sua vita terrena, il suo incontro con “sorella morte corporale”, come Lui la chiamava, che lo faceva nascere alla vita eterna, spalancandogli le porte del Paradiso.
In questo mistico momento, ripensando alla sua figura e alla sua vita, vorrei invitarvi a riflettere su due aspetti particolarmente ricchi di significato.
I
San Francesco fu un uomo libero, un uomo che si è fatto libero per liberare gli uomini. Si è fatto libero dalle ricchezze e dalla sete di potere e di guadagno. Figlio di un ricco mercante di Assisi, giovanissimo, dona tutti i suoi beni ai poveri e si consacra al servizio di Dio e dei fratelli, soprattutto dei poveri, dei lebbrosi, degli emarginati, degli esclusi. E senza gridare contro nessuno! Senza condannare nessuno! Le lotte di classe e le rivoluzioni in senso temporale, che troppo spesso seminano odio e divisioni, non lo hanno mai interessato.
Amici, non c’è stata una rivoluzione francescana nel senso corrente della parola, a meno che per rivoluzione s’intenda il ritorno alla vita semplice, evangelica, ad un vangelo vissuto “sine glossa”, con spontaneità e in perfetta letizia, con la libertà dei figli di Dio. Francesco fu l’esempio più alto della non violenza, non soltanto perché, in una società armata fino ai denti com’era quella in cui viveva, comandò ai suoi frati e a tutti i suoi seguaci di non portare armi; non soltanto perché, nel secolo delle crociate, (queste spesso giustificate carneficine), andò disarmato dal Sultano, a parlargli di Cristo e del Vangelo. E questi fu talmente colpito dall’amore di Dio che avrebbe voluto convertirsi alla religione cristiana, se Francesco non gli avesse detto:“No, aspetta, perché i tuoi sudditi, che sono musulmani, ti potrebbero uccidere”.
II
Il dialogo con i non cristiani, il dialogo con chi crede in altri valori. Ma non sentite, amici, l’attualità, non diciamo la modernità, che è parola da salotto; l’attualità, il significato di questi fatti: la non violenza come norma di comportamento, di vita, il rispetto dell’uomo, delle sue idee politiche e religiose, della sua inviolabilità. La più grande esemplarità di Francesco fu quella di non condannare niente e nessuno, perché la condanna di qualcuno è già un atto di violenza, ma di essere totalmente e intensamente uomo di Dio in mezzo agli uomini. E appunto perché uomo pieno di Dio, fu, come nessun altro, uomo tra gli uomini e come nessun altro amò e beneficò l’uomo, tutti gli uomini, tanto che il poeta Ungaretti, poco tempo prima di morire, ebbe a dire a un mio confratello: “Dopo che è vissuto lui sulla terra, la vita, anche per noi, è diventata più facile e più felice”.
III
Amici, Francesco ci insegna tante cose! Ci insegna come dobbiamo pregare con il cuore distaccato e l’anima luminosa. Ci insegna come la semplicità sia una forza capace di condurre all’essenziale, alle gioie più spontanee e famigliari della vita, perché non abbiamo bisogno di tante cose. Ci insegna come il dolore e la fatica sono meno pesanti e più accettabili quando si guarda il crocifisso e il cielo. Ci insegna sopra tutto come lo scopo più alto della vita si realizzi nell’amare Dio con tutto il cuore e nel servire i nostri fratelli, soprattutto i più poveri e abbandonati. Infine ci insegna come solo Gesù e il santo Vangelo abbiano il segreto per farci più buoni e più felici.
Amici cari, diciamo a Francesco: “Tu, che hai avvicinato il Cristo alla tua epoca, aiutaci ad avvicinare il Cristo agli uomini del nostro tempo. Aiutaci! Questi uomini del secolo ventesimo ti attendono con grandissima ansia, anche se molti di essi non se ne rendono ragione. Tu, o Francesco, che hai portato nel tuo cuore, come nessun altro, i travagli e le aspirazioni dei tuoi contemporanei, aiutaci, col cuore vicino al cuore di Gesù, ad abbracciare le vicende tormentate e felici degli uomini della nostra epoca; i difficili problemi sociali, economici, politici; i problemi della cultura e della giustizia; tutte le sofferenze dell’uomo di oggi, i suoi dubbi, le sue negazioni, i suoi sbandamenti, le sue tensioni, le sue inquietudini, le sue seti. Aiutaci a risolvere tutto in chiave evangelica, affinché Cristo sia via, verità e vita e gioia e libertà per l’uomo del nostro tempo. Questo Francesco ti chiediamo stasera con grande fiducia, noi, tuoi amici e devoti, sicuri che ci esaudirai, tu, che sei sempre stato buono, e sempre ci hai amato e sempre ti sei affrettato a portare aiuto a tutti coloro che si sono rivolti a te.”
Immagine sacra, stampa su carta, Pavia, 1977
Natale
Ciclo A dell’anno liturgico – Messa al mattino
“Vi annuncio una grande gioia: oggi è nato il vostro Salvatore”.
Cari amici, come tutti gli anni, vi ripeto queste parole degli angeli ai pastori, anche se sempre con più affanno. Perché? direte voi. Amici, quante volte le abbiamo sentite e che cosa è cambiato nel mondo e nella nostra vita? Guardiamoci intorno: com’è il mondo? Sempre irrequieto, insoddisfatto e aggressivo. Com’è la nostra vita? Spesso triste, vuota, agitata, scontenta. Per tante cose siamo preoccupati, scontenti. E forse, a volte, non ne sappiamo nemmeno il motivo. Che cosa, dunque, potrà cambiare questo Natale? Questo annuncio di gioia e di pace?
Cari amici, lo so: voi portate dentro la pesantezza della vita! Ma non dovete credermi estraneo. Nel mio cuore ci sono le vostre stesse sofferenze e delusioni. Sono un sacerdote, un frate e un uomo. L’incomprensione, l’ingratitudine, la stanchezza sono pane quotidiano; anch’io le soffro. Eppure stamattina mi faccio coraggio e vi dico: “C’è una buona notizia!” Oggi è Natale, nasce Gesù, nasce il Redentore, l’umanità è investita da un flusso di bontà che, anche se è cosa di un giorno, debbo godere e in essa ossigenarmi, per ossigenare.
Cari amici, Gesù viene perché ci ama. Nell’umanità oggi c’è un flusso di bontà. Il giorno di Natale è diverso dagli altri giorni. Godiamoci questi attimi e prolunghiamoli. Come si fa a prolungare la gioia del Natale nella vita? Non vi do suggerimenti teologici, ma pratici. Io penso che sia innanzitutto necessario capire lo stile di vita di Gesù Bambino cioè: la spontaneità, l’amore per le cose piccole, semplici, e, come dicevo stanotte, possedere la capacità di incantarci davanti a queste cose, come facevamo da bambini.
Amici, guardate come è nato Gesù, da chi e dove! Ha ripudiato lo sfarzo, i palazzi, i cerimoniali, anche le comodità. È nato nel luogo più discreto, più appartato, più povero e più bello. Sì, il più bello, perché nella grotta di Betlemme c’era il poco calore della paglia, delle bestie, ma quanto caldo nel cuore di Maria, Giuseppe e dei pastori! Ecco: rifarci il gusto delle cose semplici, delle cose spontanee, piccole ma vere, anche se sembrano insignificanti. È il primo dono del santo Natale.
Cari amici, io ripenso sempre alla mia infanzia, ai Natali della mia infanzia. Poche cose, piccoli regali, ma quanto calore umano! E le feste si passavano in famiglia, perché altrimenti non erano feste. Come si era sereni e felici! Ci si disperava di meno. Perché? Perché, anche se fuori c’erano i disagi e le malattie e la corruzione, dentro c’era la luce della fede e dell’onestà. Una fede e un’onestà che non venivano travolte perché gli altri vivevano male. Io posso, devo restare onesto, anche in un mondo disonesto. Ma soprattutto c’era più amore. Un amore fatto di opere, di sacrifici e di preghiera. Quante preghiere ho recitato davanti al presepio, alla culla di Gesù Bambino. Cari amici, ecco il programma per un ‘Buon Natale’: ritornare bambini nello spirito e volersi bene. È l’augurio che faccio a voi e ai vostri cari.
La risurrezione: un popolo fatto nuovo dalla luce di Cristo
Ciclo A dell’anno liturgico
Stasera voglio iniziare la nostra riflessione partendo dalla osservazione di questa nuova aula ecclesiale dove ci raduniamo per ascoltare la parola di Dio e celebrare l’Eucarestia in festa!
Quale è, cari amici, la caratteristica di questa chiesa? È la luce che irrompe radiosa e pacificante dalle grandi vetrate, invade tutto lo spazio e ogni angolo dell’aula diventa un canto di luci e colori; sul presbiterio splende il disco solare, il Cristo. Nel battistero una luce da bosco, dove scorre una sorgente di acqua viva che purifica e rinnova. Nella cappella eucaristica c’è una atmosfera di calda intimità; nella zona penitenziale riflessi che aprono il cuore alla confidenza e al perdono e in alto, nel grande rosone, fra toni di azzurro del cielo, una figura bianca, sognata con il cuore, una candida figura di donna: la nostra Mamma, la vergine Maria.
Voi mi direte: “Come mai hai creato la nostra chiesa nella luce?” La risposta mi è suggerita dal mistero che ci prepariamo a celebrare: la Pasqua. Sembra chiaro che il punto focale dell’avvenimento pasquale che vogliamo rivivere in pienezza sia la luce. Ricordate, amici, l’impeto lirico del preconio pasquale?
“Esulti la terra, irradiata da tanto fulgore, e, avvolta dallo splendore dell’eterno re, comprenda d’essersi liberata dalle tenebre che avvolgono il mondo intero.” Amici, Cristo risorto è luce, la nostra luce, la luce del mondo. Quel trarre dal nuovo fuoco benedetto la scintilla che accenderà il Sabato Santo tutte le luci della vostra chiesa è gesto espressivo di questa verità radiosa: “Cristo risorto è sorgente di luce” e luce vale sapienza, vale verità, vale giustizia, vale libertà, luce vale amore, pace, felicità.
Cari amici, noi siamo piuttosto abituati a pensare alla parola di Cristo come “nostra luce”; a pensare al Signore Gesù come maestro di verità, mediante i suoi insegnamenti. “Io sono la via, la verità, la vita”. E giustamente. Ma ricordate: la Pasqua fa di Cristo un faro irradiante non tanto per le parole con le quali Egli, redivivo, convaliderà la fede, ancora vacillante, trepidante, esterrefatta dei fortunati discepoli, che di Lui, risorto, ebbero visione e conversazione, ma per il fatto unico, strepitoso, innovatore, della sua gloriosa risurrezione.
“Come mai, come mai – ci domandiamo – Cristo risorto è fonte di luce?” È luce, innanzitutto, perché è prova, prova che Lui è Dio, prova che Lui è il Messia, il Redentore del mondo. “Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede”. Il grido di Tommaso che tocca le piaghe di Gesù: “Mio Signore e mio Dio!” è il primo raggio di luce che illumina di certezza la fede della Chiesa nascente, la nostra fede.
Da quel giorno, per gli Apostoli, Cristo è il loro Signore, Cristo è il nostro Signore, il Signore di tutti gli uomini.
Cristo risorto è luce per un altro motivo: perché svela all’uomo il suo destino eterno. Scrive san Paolo ai cristiani di Corinto: “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che dormono il sonno della morte”. Aperta la tomba di Cristo, tutte le altre si apriranno. Vedete, amici, come la Pasqua è luce che si diffonde oltre l’arco del tempo e giunge fino alla soglia dell’eternità.
Infine Cristo risorto è luce anche per questa nostra vita presente. Enunciando all’uomo un destino eterno Cristo gli propone una nuova forma di vita. Surrexit Dominus vere! Cristo è veramente risorto! Annuncerà la Chiesa la Domenica di risurrezione. Così, amici, così si deve dire del cristiano che ha fatto Pasqua. Surrexit vere. Sì, è veramente risorto! È risorto dal peccato alla vita di Dio! È risorto dall’egoismo, dalla cattiveria e dalla mediocrità. È risorto ad una vita nuova.
Cari amici, quando nasce un bambino, noi diciamo che ‘viene alla luce’. Certamente anche voi avrete visitato alcune grotte, ve ne sono anche in Italia: stupende, meravigliose, eccezionali. Sono piene di stalattiti e stalagmiti, che hanno la suggestione delle foreste incantate o delle cattedrali gotiche. Ma questi luoghi sono oscuri e appunto perché privi di luce, anche voi avrete notato che non c’è un fiore, non c’è un albero, neppure un filo d’erba, forse qualche macchia di muschio, proprio perché manca la luce. Vedete: la luce è la sorgente della vita, di quella fisica e di quella spirituale.
Ecco perché i cristiani venivano chiamati ‘gli illuminati’, perché erano ripieni della luce di Cristo. “Il Signore – dice san Pietro – ci ha chiamati alla sua luce ammirabile”. Noi, se veri cristiani, dobbiamo risplendere. “Risplenda la vostra luce!” L’impegno pasquale del cristiano è questo: portare la luce di Cristo risorto nel mondo. A tutti! Amici, preghiamo affinché le nostre fiaccole non si spengano mai. È questo il significato delle promesse battesimali che rinnoveremo nella Veglia Pasquale. E conceda anche a noi il Signore risorto la grazia di poter dire con il grande Newman al termine della nostra vita terrena: “Ho camminato tanto. Ho faticato e sofferto tanto, ma non ho mai peccato contro la luce”.
Resurrezione, tecnica mista su carta, Pavia, anni novanta
Pasqua
Ciclo A dell’anno liturgico
Pasqua! È Pasqua, amici! Cristo è veramente, realmente risorto. Alleluia! È risorto non soltanto nell’opinione e poi nella persuasione soggettiva degli apostoli e della prima comunità cristiana che da Lui ebbe origine, ma è risorto personalmente, storicamente, sempre Lui, il Gesù del Vangelo. È risorto in una condizione di vita radicalmente nuova, che conserva, ma oltrepassa lo stato della presente, umana esistenza, sublimandone la pienezza, la gloria, la potenza, la spiritualità. Cristo è risorto!
A Lui tributiamo l’omaggio della nostra fede e della nostra esultanza. Alleluia! E poi, amici, lasciamo che la luce, la virtù della Pasqua fluiscano sopra la nostra travagliata umanità, come questa notte l’inno beato dell’Exultet ce ne ha dato l’annuncio e quasi l’esperienza. Perché la resurrezione di Cristo non è soltanto un suo trionfo personale sulla morte, ma è anche il principio della nostra salvezza e della nostra resurrezione. Con Cristo ogni cristiano risorge, deve risorgere. Risorgere dal peccato, che è una sorgente avvelenata della vita. Risorgere con un impegno, uno sforzo di rinnovamento morale e spirituale. Non importa, amici, se l’esperienza della caducità e della malvagità delle forze umane delude ogni giorno le nostre fragili speranze di un domani migliore. Sembra che dagli uomini ci sia proprio poco da sperare. Non importa nemmeno se dal progresso e dal benessere sembrano derivare all’uomo non elevazioni, ricchezze di valori morali e spirituali, serenità, gioia e sicurezza di vita, ma preoccupazioni, tormento, insoddisfazione, noia. Non importa, amici! Perché una nuova, originale, inesauribile sorgente di vita è stata infusa oggi nel mondo da Cristo risorto e questa forza è operante in tutti, operante soprattutto per quanti ne ascoltano la parola, ne accolgono lo spirito e ne compongono il mistico corpo. Cari amici, forse la croce, con la quale Gesù si presenta, ci rende diffidenti e pavidi, orientati come siamo verso l’eliminazione del sacrificio, della disciplina, del dovere. Ma a chi accoglie il Signore risorto, Egli svela il segreto della sua croce, che è luce, forza, libertà e pace. È sì sacrificio, ma per la grandezza morale dell’uomo e per il sopravvento dell’amore che non delude. Io vi auguro che Cristo risorto sia da voi compreso, amato e seguito così. A stimolo di buoni propositi, a conforto dei poveri, dei malati, degli sfiduciati ancor oggi così numerosi.
A tutti, buona Pasqua!
La gloria di Dio
Ciclo A dell’anno liturgico – Giov. 17,1-11, Domenica VII dopo Pasqua
Il gruppo di uomini e di donne, tra i quali Maria e gli apostoli, che si raccoglie, come vuole la tradizione, nel cenacolo, la stessa stanza dove, qualche settimana prima, Gesù aveva istituito l’Eucarestia e aveva pronunciato le parole del Vangelo che abbiamo letto, questo gruppo è il nucleo della chiesa nascente, il germe del nuovo popolo di Dio. Questa comunità orante ha alle sue spalle la memoria della croce del Signore, la sua resurrezione e le sue apparizioni. Ed ha innanzi a sé i tempi e gli spazi determinati dalla storia futura dell’umanità.
Ancora non è sceso lo Spirito Santo. Verrà su di loro il giorno di Pentecoste sotto le forme di vento e di fuoco. Ma questo gruppo, raccolto nel cenacolo, sa che Gesù è già stato glorificato e che il suo compito sulla terra è quello di testimoniare la gloria con cui il Padre lo ha glorificato. Quale è questa gloria con cui è stato glorificato Gesù e per la quale ringrazia il Padre, con una preghiera ardente, ma a volte misteriosa e inaccessibile alle nostre possibilità umane?
Amici, per sollevare il velo che si frappone fra noi e la preghiera del Signore, è necessario innanzitutto spiegare che cosa significa la parola ‘gloria’ che è ripetuta frequentemente. Che cosa è la gloria di Dio? Secondo la Bibbia e secondo la manifestazione piena che questa parola ha avuto sulle labbra del Signore, la “gloria di Dio” è la manifestazione del suo amore onnipotente per le creature.
La gloria di Dio non sono nemmeno le Sue opere considerate in se stesse: l’universo, gli abissi siderali, le creature che popolano la terra e tutti gli spazi infiniti del cosmo. Certamente esse ci parlano di Dio, della sua gloria. Cæli enarrant gloria Dei. Ma la ‘gloria di Dio’ alla quale Gesù si riferisce in questa sua preghiera è la gloria di Dio che crea le cose e le ama perché vede che sono buone. La gloria di Dio è quella che ha creato l’uomo e la donna e li ama e vuole che si amino.
Pensiamoci, amici, la realtà grande non è il fatto che Dio ci abbia creato, ma che ci ha creato per amarci di un amore immenso, che supera ogni nostro merito e attesa. La gloria di Dio rompe le catene degli oppressi, dà la libertà agli uomini contro ogni oppressione, benedice i bambini, dà forza ai piccoli di spirito, il perdono ai peccatori, condanna ogni violenza e prepotenza. Questa è la gloria di Dio; questo è il fiume del suo amore che scorre sulla creazione e vivifica tutte le cose di una vita diversa da quella che il mondo conosce.
Per contrapposto, a chiarire questa grande verità del messaggio cristiano, c’è la ‘gloria del mondo’. La gloria del mondo! È lo Spirito del male, delle tenebre, che si erge contro Dio e contro i figli di Dio. È la forza sinistra e funesta che fin dall’inizio ha tentato di rovinare l’opera divina, La Bibbia ne parla frequentemente fino dalle sue prime pagine. Ricordate quando gli uomini vollero erigere la torre di Babele, una torre tale che permettesse loro di dare la scalata al cielo. La Bibbia annota che quegli uomini cercavano la gloria. Ma noi sappiamo che cercavano la loro gloria, non l’amore di Dio, del creato o dei loro simili. Volevano procacciarsi la gloria come affermazione di sé, come segno di potere, di potenza, di dominio.
Questa è la gloria mundi, l’affermazione di sé stessi, della propria forza, del proprio egoismo, del proprio piacere, del proprio prestigio. E per raggiungere tali obiettivi, che tangenti si pagano e si fanno pagare! La storia ne è la macabra testimonianza. Pensate a Hitler e a Stalin, due nomi contemporanei, ma quanti, quanti di questi nomi affollano le pagine della storia umana! Uomini celebri, potenti truci, che, con un cenno, mandavano a morte gli altri, uomini del potere che hanno a loro disposizione le bombe atomiche e, schiacciando un bottone, possono distruggere la terra. Ecco la ‘gloria del mondo’, mai scomparsa, sempre rinascente. Noi conosciamo le mille forme di questa gloria secondo l’uomo, ne sentiamo l’attrazione, vorrei dire l’appetizione dentro di noi.
Sì, amici. Questa gloria ci può contaminare, contagiare, assalire. Perché ciascuno di noi, in un ambito più limitato, cerca la propria gloria. E sappiamo tutti per esperienza che cercare la ‘nostra gloria’ quasi sempre significa causare in qualche modo il pianto degli altri. Esaminiamo attentamente la nostra vita, amici, non sottraiamoci a questo confronto con la nostra coscienza, con le nostre responsabilità. Quando abbiamo cercato l’affermazione di noi stessi, dei nostri piaceri, interessi, sempre abbiamo seminato intorno a noi delusione, tristezza, pianto, disperazione, nel cuore dei piccoli, dei nostri cari, di coloro forse che ci volevano più bene. Così la gloria dell’uomo diventa inesorabilmente lo stravolgimento dell’uomo, e lo fa non fratello, non amico, ma oppressore, sfruttatore, forse carnefice del suo simile. Homo homini lupus.
Se siamo cristiani, cioè uomini di cuore, animati dalle leggi del cuore, che sono frutto del Vangelo, cerchiamo la gloria di Dio di cui parla Gesù quando dice: “È giunta l’ora, glorifica tuo Figlio”.
Quale è questa glorificazione a cui allude il Signore, adesso l’abbiamo intuito. Non è la sua resurrezione, è la sua crocifissione, cioè l’atto più grande, il gesto supremo di amore di Gesù per gli uomini, un amore che lo ha portato a offrire la sua vita per la nostra salvezza. “Non c’è amore più grande di chi dà la sua vita per la persona amata”. Lui, Gesù, è morto per noi. Amici, per sapere se siamo cristiani, l’essenziale non è vedere se veniamo a Messa, se recitiamo le preghiere, se facciamo la comunione. Certamente sono opere buone, da farsi, ma l’essenziale è confrontarci con la croce del Signore, per vedere se abbiamo il suo cuore, se nella nostra vita noi diamo sempre il primato all’amore. Come diceva sant’Agostino: “Ama, ama Dio e il prossimo e poi fai tutto quello che vuoi”.
La misura evangelica dell’amore
Ciclo A dell’anno liturgico – Matt. 5,38-48, Domenica VII del tempo ordinario
Cari amici, oggi tentiamo di misurare il cammino compiuto dalla dottrina cristiana per giungere, sotto la sapiente guida di Dio, alla sua perfezione. Si tratta del punto cardine del Vangelo: ‘l’amore del prossimo’. Nel Levitico, un libro del Vecchio Testamento, il comandamento suona così: “Ama il figlio del tuo prossimo come te stesso”. Come vedete, lo sguardo non valica ancora le frontiere della patria; il prossimo è il familiare, il compatriota. L’espressione ‘come te stesso’, al contrario, è già molto esigente: “penetra nel più occulto recesso del cuore, là dove l’uomo ama se stesso. Non lascia all’egoismo la minima scusa, la minima scappatoia” (Kierkegaard), Possiamo dire che ha la stessa forza dell’istinto di conservazione. Spezza l’involucro di questo bozzolo inestricabile in cui tendo a rinchiudermi: il mio ‘io’. Mi impedisce di preferire me all’altro. Se ho cento, cinquanta a me, cinquanta a lui.
Eppure, il Vangelo fa ancora un balzo in avanti, e quale balzo! Innanzitutto, circa i destinatari dell’amore. Chi devo amare? Soltanto i miei familiari, i miei concittadini? No! Ogni uomo. Perché ogni uomo è mio fratello, è mio prossimo. Quindi devo amare non solo i buoni, gli onesti e gli educati, quelli che mi stimano, ma anche gli antipatici, gli scocciatori, chi pensa diversamente da me.
E noi, cari amici, quotidianamente ci troviamo a contatto con queste persone, in famiglia o sul lavoro, in campo politico e sociale, i rapporti non sono sempre facili, ognuno ha il suo carattere, la sua mentalità. E a volte pensiamo di avere noi il monopolio della verità! Dobbiamo amare, o almeno capire e sopportare.
C’è anche un altro punto degno della nostra riflessione. Ricordate l’episodio del santo Vangelo. Quando un dottore della legge domandò a Gesù: “Chi è il mio prossimo?” il Signore, con la parabola del Buon Samaritano, rispose capovolgendo l’interrogativo di quel Fariseo. Gli disse: “Chi è stato il più prossimo, il più buono verso l’uomo che, aggredito dai ladroni, giaceva morente sulla strada?” Ovvia è stata la risposta. “Il più buono è stato il Samaritano che si è fermato e si è preso cura del ferito”. Vedete, amici, ed è un particolare importante, non dobbiamo chiedere a chi ha bisogno del nostro aiuto e del nostro amore che lui ce lo comandi e ci venga vicino, se vuol godere del nostro amore.
Noi dobbiamo accostarci ai poveri, ai bisognosi, andare verso di loro dovunque si trovino. Ai poveri di beni materiali e ai poveri di valori umani e spirituali. Ha scritto Kierkegaard: “Tutti conoscono il prossimo, ma da una certa distanza… E, visto a distanza, il prossimo è un’ombra che, come una fantasia, si affaccia fugacemente al pensiero”. Molte volte non scopriamo il prossimo che è vicino a noi, magari nella nostra famiglia.
Un’altra indicazione importantissima, che porta a perfezione, a pienezza, il precetto dell’amore. Nostro prossimo è anche il nemico, chi cioè mi vuole male e chi mi fa del male, chi ha invidia del mio bene, chi vuol vedermi soffrire, chi mi calunnia, mi intralcia nel mio cammino, anche chi mi pugnala alle spalle, chi mi imbroglia, chi approfitta della mia bontà, della mia buona fede. Come rispondere? Con il perdono, con l’amore! Dice Gesù: il cristiano “non si lascia vincere dal male, ma vince il male con il bene” (Rom. 12, 21). In nessun caso si giustifica una mancanza d’amore per il nemico, neanche facendo appello all’ingiustizia. Ama senza sperare di essere ricambiato, anzi accetta l’ostilità senza opporre resistenza: benedici e fai del bene a chi ti fa del male. Diceva Don Orione: “Fare del bene sempre, del bene a tutti, del male a nessuno”.
E per quanto riguarda la misura dell’amore, avete sentito: Gesù ci addita l’esempio del Padre e il suo esempio. “Nell’amore del prossimo comportatevi come figli del vostro Padre celeste, il quale fa sorgere il sole sui buoni e sui malvagi e manda la sua pioggia sul campo dei giusti e degli ingiusti”.
E nel proporre se stesso come esempio di vero amore, dice: “Amatevi come io ho amato voi”. Quel ‘come’ è supremamente esigente. Egli ha dato tutto: ha immolato la vita. Qui si va molto al di là di una umana e fraterna comprensione. Ci si spinge fino all’estremo sacrificio.
L’amore del prossimo non è una legge per la quale si può dire: ‘fin qui e basta’, oppure ‘non gli faccio del male, ma stia alla larga’. Certamente, cari amici, ci troviamo sulla linea di una perfezione divina, che alcuni santi esprimevano così: “La misura dell’amore è di amare senza misura”. Conquista che è fatta di piccole quotidiane vittorie sull’ambiente di famiglia e di lavoro in cui viviamo. Vittoria che è possibile solo a quelli che hanno lo spirito di Dio e il cuore di Gesù, e pregano.
Nella memoria dei defunti
Ciclo C dell’anno liturgico – 1980
Amici, tutte le volte che vado al cimitero, provo una strana, seppure famigliare impressione: appena varco il cancello, mi sembra di passare una frontiera e di andare all’estero. Infatti, quando uno muore, si dice che è andato ‘all’altro mondo’. E allora, amici, quando in questi giorni noi entriamo in cimitero, noi varchiamo una soglia, una frontiera. Sono delle parole che, forse, non suonano troppo favorevolmente al nostro cuore: varcare la frontiera di un mondo che non conosciamo, di un mondo che ci fa un poco paura, di un mondo che qualcuno potrebbe anche chiedersi se veramente c’è.
Io questa mattina non voglio domandarvi se credete nell’aldilà. Io vi lascio nella vostra incredulità, se ci siete; vi lascio anche nella vostra negativa completa, se ci siete. Ognuno vede come può, ragiona come può, sente come può! Però io vorrei chiedervi se non avete mai provato un brivido, entrando in quest’altro mondo, sulla soglia di questo mistero che si chiama la morte. È vero che noi non abbiamo mai parlato con nessuno degli abitatori di quest’altro mondo. È anche vero che noi non sappiamo niente di quest’altro mondo, se non quello che ci rivela la fede. È vero che possiamo anche dubitare della sua esistenza, e forse qualcuno di voi ne dubita anche in questo momento. Però veda egli nella sua anima se veramente è tranquillo, se niente ha provato nel cuore quando un familiare o un amico, morendo, è entrato nell’altro mondo, perché, ricordatevi che la morte non può lasciare indifferente nessuno, increduli e credenti. Anzi, chi nega l’aldilà forse fa più fatica a rimanere in questo nostro mondo, che è pur pieno di cose misteriose; fa più fatica di coloro che credono nella vita eterna, l’ateo, a vivere in questo mondo. E allora se, entrando in cimitero, varchiamo la frontiera di un’altra patria che noi cristiani diciamo “eterna e felice”, voi lo sapete, amici: alle frontiere, cosa bisogna fare? Alle frontiere bisogna presentare i documenti, i passaporti, poi c’è l’ispezione dei bagagli; poi c’è il cambio della valuta e tutte le altre pratiche che voi ben conoscete.
Lasciate, o miei cari, che io prenda stamattina, da queste immagini, i motivi di una breve riflessione che, forse, appunto perché molto semplice, può anche essere molto utile. A quella frontiera dell’eternità un giorno dobbiamo presentarci tutti. Questo è sicuro! Quando? Non lo sappiamo. Non importa se sarà tra venti o trent’anni, o tra un anno o prima. La cosa importante è che anch’io un giorno dovrò varcare quella frontiera, come del resto tutti voi, tutti gli uomini.
E Uno, al quale nulla posso nascondere, controllerà, guarderà il mio passaporto, nel quale, oltre al nome è scritta la qualifica: fra’ Costantino, cristiano, frate, sacerdote, e controllerà il bagaglio della mia vita, che contiene un po’ di tutto, come il vostro contiene un po’ di tutto, un po’ di bene, e altra roba di poco o nessun pregio. E dovrò anche denunciare la mia moneta, quella che ho accumulato nella vita. Voi sapete che ci sono delle monete che non valgono negli altri Stati, voi sapete che ci sono anche delle monete false. La moneta che porterò con me, varcando la soglia della morte, sarà valida, sarà accettata nell’aldilà?
È tutto qui, miei cari amici, il segreto della voce misteriosa che in questo giorno parla al mio animo, parla al vostro animo. Quale è la moneta che conta, con la quale possiamo comperare, scusate l’espressione materialistica, l’ingresso nella vita eterna? Vedete, in Paradiso il nostro denaro terreno non è mai entrato. In Paradiso niente vale di questo denaro che noi abbiamo messo insieme, io non so se tanto o poco, non so se l’abbiamo accumulato bene o male.
Il denaro della terra con il quale tante volte gli uomini comprano l’onore, la libertà, il piacere e anche la coscienza, e qualche volta anche i posti di potere e di responsabilità, questo denaro non può comperare il giudizio di Dio!
C’è di più, miei cari amici. Nemmeno le presentazioni o le raccomandazioni che noi possiamo chiamare onorevoli servono a rendere benevolo il giudizio di Dio. Nessun titolo conta per l’altro mondo. Davanti a Dio non conta niente essere onorevole, essere eminenza o eccellenza, avere la mitria sulla testa o il berretto da contadino. In quell’altro mondo è inutile presentare i nostri biglietti da visita con quelle piccole vanità di titoli che pare rappresentino qualche cosa presso gli uomini e invece non valgono niente davanti a Dio. E anche quei titoli che leggiamo sulle lapidi dei cimiteri, noi sentiamo che hanno un suono di tristezza immensa e servono a noi più che ai nostri cari morti. Contano niente! Che cosa importa se uno era molto intelligente, se uno era arrivato in alto: guardatelo come è in basso adesso che è morto! Guardate come non può più niente! Là, nell’altro mondo, c’è l’uguaglianza completa.
Eppure, eppure c’è una moneta che vale per l’eternità. Anzi, due monete che contano. Sapete quali sono? Eccole: la bontà e la misericordia. Ieri, celebrando i Santi, abbiamo parlato degli uomini buoni. Quella, vedete, la bontà, è l’unica moneta che varca le soglie della vita terrena e serve per la vita eterna. La bontà! Ma la bontà, voi lo sapete, non è una moneta che possiamo farci prestare o rapire. La bontà è una moneta che bisogna guadagnarsi personalmente, con il cuore, con tutto il cuore, perché non è la bontà che entra in cielo, è l’uomo buono che va in Paradiso, è colui che si è sforzato di mettere nella sua vita, nelle sue azioni, nei suoi sentimenti, nelle sue parole, in tutto quello che è l’espressione del vivere umano, si è sforzato di mettere qualche cosa del cuore buono.
Ecco, vedete, questa è la prima moneta che vale: la bontà, anzi la moneta pregiata, la bontà, il cuore buono. Eppure, sarebbe una moneta insufficiente, se a questa non se ne aggiungesse un’altra: la bontà di Dio, che è espressa nel sangue di Cristo redentore. Lui, Cristo, ci ha meritato la salvezza. Non dimentichiamolo mai! Io, nonostante alcune qualità positive che possiedo, nonostante gli sforzi che faccio per mettere insieme un po’ di bene, sono sempre incapace di varcare la frontiera del Paradiso. Quando io mi presenterò nell’aldilà, sarò uno zero, cioè incapace di guadagnare da solo la salvezza. Così voi – perdonatemi se facciamo l’uguaglianza nel basso – voi siete altrettanti zeri, perché di fronte a quello che il Signore ci ha preparato, cosa volete mai che sia la nostra povera moneta, anche quando è una espressione di bontà?
Ecco, siamo degli zeri, ma dobbiamo essere degli zeri puliti, degli zeri chiari, senza peccato, degli zeri pieni di sentimento, degli zeri che hanno sospirato verso l’aldilà, degli zeri pieni di speranza. E allora, vedete, c’è Uno – forse non ci avete mai pensato all’ufficio del Salvatore! – il Sangue di Cristo, quando il Venerdì Santo noi lo vediamo colare ai piedi della croce: forse non ci siamo mai domandati a che cosa serva questo prezzo della nostra redenzione!
Allora, vedete, davanti all’uomo buono, di questa bontà che è una briciola, di questa bontà che è uno zero di fronte a Dio e al Paradiso, ma che deve essere sempre, però, uno sforzo verso qualche cosa che non sia semplicemente roba di terra, roba di denaro, roba da mangiare, roba da godere, allora basta uno sguardo, basta un sospiro, e vedete Dio, con le mani forate e sanguinanti del suo Cristo, che mette davanti allo zero, al nostro zero, la croce, l’unità che conta. Ave, Crux, spes unica.
E allora cosa succede? Succede questo. Io sono uno zero, io sono due zeri, voi siete come me: uno, due, tre zeri. Ma c’è una mano forata, quella di Cristo, che ha tracciato davanti il valore, l’unità. E i miei zeri, i vostri zeri, ecco, per la divina misericordia, sono diventati un 10. Ecco, il cambio è avvenuto; è avvenuto bene, si alza la sbarra, per noi c’è via libera per il cielo.
Amici, come conclusione, voglio farvi un augurio, farlo a me, farlo ai miei morti, farlo a voi e farlo a tutti i vostri morti: che, quando passeremo la frontiera dell’eternità, e si fa presto a passarla, forse prima del previsto, Cristo, riconoscendoci suoi amici, tracci quell’ uno che diventa una croce piena di luce e che rappresenta la certezza di una accoglienza, per cui anche il cielo plumbeo di questa mattina finisce di spaccarsi e possiamo vedere che i nostri morti sono arrivati non soltanto oltre la frontiera, ma sono arrivati nella gloria del Paradiso.