Omelie domenicali

Chiara Rovati

Nella chiesa del convento di Canepanova, in Pavia, padre Ruggeri ha tenuto molte omelie durante le messe domenicali; lo faceva con piacere poiché – disse all’amico e confratello padre Fabbretti – fin dalla prima predica nella chiesa del paese natale, tenuta nel giorno dell’ordinazione sacerdotale: “Sentii che la predicazione mi avrebbe riservato molte belle soddisfazioni” (v. Soltanto un fiore). Ci restano quelle tenute dal 1980 in poi, raccolte in quaderni conservati nell’Archivio storico della Provincia di sant’Antonio dei Frati Minori, in Milano.

Raggruppati secondo il ciclo degli anni liturgici (A, B, e C), i loro tempi (Avvento e Natale, Quaresima e Pasqua, Tempo Ordinario) e per occasioni diverse (come tridui e giornate missionarie), i testi denunciano il procedimento utilizzato dal padre: dopo aver fissato uno schema di riferimento, egli chiedeva alla segretaria, Carmen, la trascrizione fedele dello sviluppo che aveva dato allo schema nel corso dell’omelia; utilizzava in seguito più volte lo stesso testo ma rivedendolo, come segnalano le frequenti correzioni autografe. Appunti e trascrizioni portano quasi sempre un titolo; rispondono inoltre a una struttura tripartita – con introduzione, tema sviluppato, conclusioni – che emerge anche in diversi appunti, stesi a mano, come canovaccio delle conferenze.

Traeva i riferimenti più importanti dai Vangeli, che arricchiva con citazioni di autori a lui cari, fra i molti soprattutto di sant’Agostino, Kierkegaard, Dostoevskij. Si qualificava in esse come sacerdote, frate e uomo, oppure cristiano, frate e sacerdote, mai come artista. Il tema più ricorrente era l’amore che lega Cristo agli uomini e viceversa, che costruisce fraternità e rende salda la famiglia, che consente il perdono e rende capaci di essere poveri con libertà. Spesso richiamava il valore della luce. In un’omelia qui riportata, sviluppata nella chiesa di suo progetto a Rho (Milano), legò l’evento della Resurrezione alla “luce che irrompe radiosa e pacificante dalle grandi vetrate e invade tutto lo spazio”.

Non prendeva mai le distanze da chi aveva di fronte, si rivolgeva anzi agli ascoltatori chiamandoli ‘cari amici’ in una sintonia di comune destino dal timbro francescano e sorretta da animo lieto e aperto al futuro ma anche da lucido sguardo sulla, mai negata, durezza del vivere.

Per la festività di san Francesco d’Assisi

Ciclo A dell’anno liturgico 4 ottobre

Oggi è la festa di san Francesco d’Assisi, patrono d’Italia, fondatore dei frati minori, più conosciuti con il nome di francescani. Stamattina io voglio parlarvi di Lui, anche se è molto difficile. Ed è difficile per almeno due motivi. Perché si corre il rischio di parlarne tanto per parlarne, cioè per curiosità o per godimento estetico; ma, finito il discorso, nella nostra vita non cambia niente.

Poi c’è il pericolo di ridurre san Francesco d’Assisi al santo romantico, all’innamorato della natura che parla ai fiori, agli uccelli, al fuoco e alle nuvole, come fanno i bambini e i poeti.

Il poverello d’Assisi, nelle vesti di un amabile e dolce trovatore, può certamente suscitare un godimento intellettuale. Collocato nella cornice dei Fioretti, senza dubbio attrae e piace.

Ma, cari amici, sono forse questi gli aspetti più importanti e caratteristici di san Francesco, dai quali viene a noi il suo messaggio? A noi, insoddisfatti, delusi e diffidenti di noi stessi, della società e della vita? A noi fortemente preoccupati del nostro domani e di quello dei nostri figli? Un domani che vorremmo diverso: più sereno, più giusto, più religioso, per vivere nella gioia, nella perfetta letizia e nella libertà dei figli di Dio.

Amici, san Francesco fu uno di questi uomini liberi, uno che si è fatto libero – notiamolo bene – si è fatto libero per liberare. E da che cosa san Francesco si è fatto libero?

Francesco si è liberato: dalle suggestioni delle cose materiali, dalla frenesia del piacere, del divertimento, dall’avidità di possedere, dalla sete di denaro e di guadagno. Non a parole, amici, ma a fatti. Ricordate? Figlio di un ricco mercante, giovane intelligente e affascinante, volontariamente, per amore di Dio, rinuncia a tutto. E senza gridare contro nessuno, senza condannare nessuno, i suoi beni li dona ai poveri, affinché anch’essi abbiano un pane, una sicurezza e una gioia sufficienti e anch’essi possano più facilmente sentirsi amati da Dio e dagli uomini. Amici, ricordate! La più grande esemplarità che Francesco realizzò fu quella di “sentirsi con gioia figlio di Dio” e di poter farlo sentire a tutti gli uomini. Il Cantico delle creature che tutti conoscete, “Laudato sii, mi Signore, per frate sole, per frate foco, per sora acqua, per la nostra madre terra…”, è l’inno alla gioia e alla libertà della vita, il rendimento di grazie di Francesco per aver riportato, o tentato di riportare, il mondo allo stato di innocenza come Dio aveva creato l’uomo all’inizio dei tempi e collocato nel paradiso terrestre.

Questo fu Francesco per il suo tempo. Chi lo conobbe da vicino e visse molti anni con lui, non esitò a definirlo alter Christus, “il Cristo che ritorna a camminare sulle strade del mondo “, “un uomo fatto preghiera”. In altre parole: “un essere totalmente, profondamente, intensamente di Dio”.

Noi oggi viviamo tempi difficili! Il consumismo ci ammala e ci sommerge. Ci affanniamo a volte, con quale fiato grosso, per avere tante, tantissime cose che ci facciano felici.

Non ci accontentiamo più del pane e di un tetto sufficiente; vogliamo l’automobile, il televisore, più vestiti per ogni moda e stagione; divertimenti per godere e soprattutto per dimenticare.

E c’è anche chi vuole le cose che non fanno bene al corpo e all’anima: la droga, per esempio, e chi si affanna per avere una porzione più o meno grossa di potere dimenticandoci troppo spesso che la gioia non sta qui, nell’avere tante cose materiali, ma nell’essere buoni. La felicità e la pace è l’amicizia con il Signore, la felicità è nel volerci bene tra di noi e nel voler bene al nostro prossimo.

Questo ci dice e ci insegna Francesco d’Assisi. Nella storia religiosa Francesco d’Assisi è chiamato “il poverello di Cristo”, un piccolo uomo, un povero, ma che ha ricchezze meravigliose e inimmaginabili, da dare a tutti, per fare tutti gli uomini felici. Questi tesori sono la perfetta letizia, la libertà, la pace del cuore, l’amore degli uomini tra loro e con il creato. tesori di cui tutti siamo affamati e che dobbiamo assolutamente ritrovare al più presto se non vogliamo essere irrimediabilmente perduti.

Amici, alcuni decenni fa, io ho avuto l’incarico e la fortuna di fissare il suo volto sui manifesti che avete visto agli ingressi della chiesa e sui muri della nostra città. Sul manifesto c’è anche una brevissima frase: Francesco, un volto per l’uomo. Sì, Francesco, donaci il tuo volto, i tuoi occhi, il tuo amore, la tua perfetta letizia. Ne ho tanto, estremo bisogno, io, tuo figlio. Ne hanno tanto bisogno questi tuoi devoti amici, qui presenti a celebrare la memoria del tuo beato transito dalla terra al cielo. E tu, Francesco, prendici tutti per mano e accompagnaci, senza clamore, per tutta la vita, a consolarci sempre, nella consolazione di Dio e nella consolazione degli uomini nostri fratelli, che Lui ci farà incontrare nel nostro cammino terreno.

Per la festività di san Francesco

Ciclo B dell’anno liturgico 4 ottobre

“Francesco d’Assisi era un uomo fecondissimo, d’aspetto buono, mai indolente e mai altezzoso. Era incantevole, stupendo e glorioso nella sua innocenza, nella semplicità della sua parola, nella purezza del cuore, nell’amore di Dio, nella carità fraterna, nella cortesia, nell’aspetto angelico. Di carattere mite, d’indole calmo, affabile nel parlare, cauto nell’ammonire, fedelissimo al suo dovere e all’amicizia, accorto nel consigliare, efficace nell’operare, amabile con tutti. Di mente serena, dolce di animo, costante nell’orazione e in tutto pieno di entusiasmo. Tenace nei propositi, saldo nella virtù, perseverante nella grazia, veloce nel perdonare, lento all’ira, fervido d’ingegno, fine nella discussione, prudente nelle decisioni e di grande semplicità. Severo con sé, indulgente con gli altri.” Cari amici, così descrive Francesco d’Assisi il suo primo biografo Tommaso da Celano. Noi oggi celebriamo la sua festa e l’inizio dell’ottavo centenario della sua nascita. Dopo la santa Messa, con un rito commovente, noi rivivremo il suo beato transito, cioè gli ultimi istanti della sua vita terrena, il suo incontro con “sorella morte corporale”, come Lui la chiamava, che lo faceva nascere alla vita eterna, spalancandogli le porte del Paradiso.

In questo mistico momento, ripensando alla sua figura e alla sua vita, vorrei invitarvi a riflettere su due aspetti particolarmente ricchi di significato.

I

San Francesco fu un uomo libero, un uomo che si è fatto libero per liberare gli uomini. Si è fatto libero dalle ricchezze e dalla sete di potere e di guadagno. Figlio di un ricco mercante di Assisi, giovanissimo, dona tutti i suoi beni ai poveri e si consacra al servizio di Dio e dei fratelli, soprattutto dei poveri, dei lebbrosi, degli emarginati, degli esclusi. E senza gridare contro nessuno! Senza condannare nessuno! Le lotte di classe e le rivoluzioni in senso temporale, che troppo spesso seminano odio e divisioni, non lo hanno mai interessato.

Amici, non c’è stata una rivoluzione francescana nel senso corrente della parola, a meno che per rivoluzione s’intenda il ritorno alla vita semplice, evangelica, ad un vangelo vissuto “sine glossa”, con spontaneità e in perfetta letizia, con la libertà dei figli di Dio. Francesco fu l’esempio più alto della non violenza, non soltanto perché, in una società armata fino ai denti com’era quella in cui viveva, comandò ai suoi frati e a tutti i suoi seguaci di non portare armi; non soltanto perché, nel secolo delle crociate, (queste spesso giustificate carneficine), andò disarmato dal Sultano, a parlargli di Cristo e del Vangelo. E questi fu talmente colpito dall’amore di Dio che avrebbe voluto convertirsi alla religione cristiana, se Francesco non gli avesse detto:“No, aspetta, perché i tuoi sudditi, che sono musulmani, ti potrebbero uccidere”.

II

Il dialogo con i non cristiani, il dialogo con chi crede in altri valori. Ma non sentite, amici, l’attualità, non diciamo la modernità, che è parola da salotto; l’attualità, il significato di questi fatti: la non violenza come norma di comportamento, di vita, il rispetto dell’uomo, delle sue idee politiche e religiose, della sua inviolabilità. La più grande esemplarità di Francesco fu quella di non condannare niente e nessuno, perché la condanna di qualcuno è già un atto di violenza, ma di essere totalmente e intensamente uomo di Dio in mezzo agli uomini. E appunto perché uomo pieno di Dio, fu, come nessun altro, uomo tra gli uomini e come nessun altro amò e beneficò l’uomo, tutti gli uomini, tanto che il poeta Ungaretti, poco tempo prima di morire, ebbe a dire a un mio confratello: “Dopo che è vissuto lui sulla terra, la vita, anche per noi, è diventata più facile e più felice”.

III

Amici, Francesco ci insegna tante cose! Ci insegna come dobbiamo pregare con il cuore distaccato e l’anima luminosa. Ci insegna come la semplicità sia una forza capace di condurre all’essenziale, alle gioie più spontanee e famigliari della vita, perché non abbiamo bisogno di tante cose. Ci insegna come il dolore e la fatica sono meno pesanti e più accettabili quando si guarda il crocifisso e il cielo. Ci insegna sopra tutto come lo scopo più alto della vita si realizzi nell’amare Dio con tutto il cuore e nel servire i nostri fratelli, soprattutto i più poveri e abbandonati. Infine ci insegna come solo Gesù e il santo Vangelo abbiano il segreto per farci più buoni e più felici.

Amici cari, diciamo a Francesco: “Tu, che hai avvicinato il Cristo alla tua epoca, aiutaci ad avvicinare il Cristo agli uomini del nostro tempo. Aiutaci! Questi uomini del secolo ventesimo ti attendono con grandissima ansia, anche se molti di essi non se ne rendono ragione. Tu, o Francesco, che hai portato nel tuo cuore, come nessun altro, i travagli e le aspirazioni dei tuoi contemporanei, aiutaci, col cuore vicino al cuore di Gesù, ad abbracciare le vicende tormentate e felici degli uomini della nostra epoca; i difficili problemi sociali, economici, politici; i problemi della cultura e della giustizia; tutte le sofferenze dell’uomo di oggi, i suoi dubbi, le sue negazioni, i suoi sbandamenti, le sue tensioni, le sue inquietudini, le sue seti. Aiutaci a risolvere tutto in chiave evangelica, affinché Cristo sia via, verità e vita e gioia e libertà per l’uomo del nostro tempo. Questo Francesco ti chiediamo stasera con grande fiducia, noi, tuoi amici e devoti, sicuri che ci esaudirai, tu, che sei sempre stato buono, e sempre ci hai amato e sempre ti sei affrettato a portare aiuto a tutti coloro che si sono rivolti a te.”

Immagine sacra, stampa su carta, Pavia, 1977

Natale

Ciclo A dell’anno liturgico Messa al mattino

“Vi annuncio una grande gioia: oggi è nato il vostro Salvatore”.
Cari amici, come tutti gli anni, vi ripeto queste parole degli angeli ai pastori, anche se sempre con più affanno. Perché? direte voi. Amici, quante volte le abbiamo sentite e che cosa è cambiato nel mondo e nella nostra vita? Guardiamoci intorno: com’è il mondo? Sempre irrequieto, insoddisfatto e aggressivo. Com’è la nostra vita? Spesso triste, vuota, agitata, scontenta. Per tante cose siamo preoccupati, scontenti. E forse, a volte, non ne sappiamo nemmeno il motivo. Che cosa, dunque, potrà cambiare questo Natale? Questo annuncio di gioia e di pace?

Cari amici, lo so: voi portate dentro la pesantezza della vita! Ma non dovete credermi estraneo. Nel mio cuore ci sono le vostre stesse sofferenze e delusioni. Sono un sacerdote, un frate e un uomo. L’incomprensione, l’ingratitudine, la stanchezza sono pane quotidiano; anch’io le soffro. Eppure stamattina mi faccio coraggio e vi dico: “C’è una buona notizia!” Oggi è Natale, nasce Gesù, nasce il Redentore, l’umanità è investita da un flusso di bontà che, anche se è cosa di un giorno, debbo godere e in essa ossigenarmi, per ossigenare.

Cari amici, Gesù viene perché ci ama. Nell’umanità oggi c’è un flusso di bontà. Il giorno di Natale è diverso dagli altri giorni. Godiamoci questi attimi e prolunghiamoli. Come si fa a prolungare la gioia del Natale nella vita? Non vi do suggerimenti teologici, ma pratici. Io penso che sia innanzitutto necessario capire lo stile di vita di Gesù Bambino cioè: la spontaneità, l’amore per le cose piccole, semplici, e, come dicevo stanotte, possedere la capacità di incantarci davanti a queste cose, come facevamo da bambini.

Amici, guardate come è nato Gesù, da chi e dove! Ha ripudiato lo sfarzo, i palazzi, i cerimoniali, anche le comodità. È nato nel luogo più discreto, più appartato, più povero e più bello. Sì, il più bello, perché nella grotta di Betlemme c’era il poco calore della paglia, delle bestie, ma quanto caldo nel cuore di Maria, Giuseppe e dei pastori! Ecco: rifarci il gusto delle cose semplici, delle cose spontanee, piccole ma vere, anche se sembrano insignificanti. È il primo dono del santo Natale.

Cari amici, io ripenso sempre alla mia infanzia, ai Natali della mia infanzia. Poche cose, piccoli regali, ma quanto calore umano! E le feste si passavano in famiglia, perché altrimenti non erano feste. Come si era sereni e felici! Ci si disperava di meno. Perché? Perché, anche se fuori c’erano i disagi e le malattie e la corruzione, dentro c’era la luce della fede e dell’onestà. Una fede e un’onestà che non venivano travolte perché gli altri vivevano male. Io posso, devo restare onesto, anche in un mondo disonesto. Ma soprattutto c’era più amore. Un amore fatto di opere, di sacrifici e di preghiera. Quante preghiere ho recitato davanti al presepio, alla culla di Gesù Bambino. Cari amici, ecco il programma per un ‘Buon Natale’: ritornare bambini nello spirito e volersi bene. È l’augurio che faccio a voi e ai vostri cari.

La risurrezione: un popolo fatto nuovo dalla luce di Cristo

Ciclo A dell’anno liturgico

Stasera voglio iniziare la nostra riflessione partendo dalla osservazione di questa nuova aula ecclesiale dove ci raduniamo per ascoltare la parola di Dio e celebrare l’Eucarestia in festa!

Quale è, cari amici, la caratteristica di questa chiesa? È la luce che irrompe radiosa e pacificante dalle grandi vetrate, invade tutto lo spazio e ogni angolo dell’aula diventa un canto di luci e colori; sul presbiterio splende il disco solare, il Cristo. Nel battistero una luce da bosco, dove scorre una sorgente di acqua viva che purifica e rinnova. Nella cappella eucaristica c’è una atmosfera di calda intimità; nella zona penitenziale riflessi che aprono il cuore alla confidenza e al perdono e in alto, nel grande rosone, fra toni di azzurro del cielo, una figura bianca, sognata con il cuore, una candida figura di donna: la nostra Mamma, la vergine Maria.

Voi mi direte: “Come mai hai creato la nostra chiesa nella luce?” La risposta mi è suggerita dal mistero che ci prepariamo a celebrare: la Pasqua. Sembra chiaro che il punto focale dell’avvenimento pasquale che vogliamo rivivere in pienezza sia la luce. Ricordate, amici, l’impeto lirico del preconio pasquale?

“Esulti la terra, irradiata da tanto fulgore, e, avvolta dallo splendore dell’eterno re, comprenda d’essersi liberata dalle tenebre che avvolgono il mondo intero.” Amici, Cristo risorto è luce, la nostra luce, la luce del mondo. Quel trarre dal nuovo fuoco benedetto la scintilla che accenderà il Sabato Santo tutte le luci della vostra chiesa è gesto espressivo di questa verità radiosa: “Cristo risorto è sorgente di luce” e luce vale sapienza, vale verità, vale giustizia, vale libertà, luce vale amore, pace, felicità.

Cari amici, noi siamo piuttosto abituati a pensare alla parola di Cristo come “nostra luce”; a pensare al Signore Gesù come maestro di verità, mediante i suoi insegnamenti. “Io sono la via, la verità, la vita”. E giustamente. Ma ricordate: la Pasqua fa di Cristo un faro irradiante non tanto per le parole con le quali Egli, redivivo, convaliderà la fede, ancora vacillante, trepidante, esterrefatta dei fortunati discepoli, che di Lui, risorto, ebbero visione e conversazione, ma per il fatto unico, strepitoso, innovatore, della sua gloriosa risurrezione.

“Come mai, come mai – ci domandiamo – Cristo risorto è fonte di luce?” È luce, innanzitutto, perché è prova, prova che Lui è Dio, prova che Lui è il Messia, il Redentore del mondo. “Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede”. Il grido di Tommaso che tocca le piaghe di Gesù: “Mio Signore e mio Dio!” è il primo raggio di luce che illumina di certezza la fede della Chiesa nascente, la nostra fede.

Da quel giorno, per gli Apostoli, Cristo è il loro Signore, Cristo è il nostro Signore, il Signore di tutti gli uomini.

Cristo risorto è luce per un altro motivo: perché svela all’uomo il suo destino eterno. Scrive san Paolo ai cristiani di Corinto: “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che dormono il sonno della morte”. Aperta la tomba di Cristo, tutte le altre si apriranno. Vedete, amici, come la Pasqua è luce che si diffonde oltre l’arco del tempo e giunge fino alla soglia dell’eternità.

Infine Cristo risorto è luce anche per questa nostra vita presente. Enunciando all’uomo un destino eterno Cristo gli propone una nuova forma di vita. Surrexit Dominus vere! Cristo è veramente risorto! Annuncerà la Chiesa la Domenica di risurrezione. Così, amici, così si deve dire del cristiano che ha fatto Pasqua. Surrexit vere. Sì, è veramente risorto! È risorto dal peccato alla vita di Dio! È risorto dall’egoismo, dalla cattiveria e dalla mediocrità. È risorto ad una vita nuova.

Cari amici, quando nasce un bambino, noi diciamo che ‘viene alla luce’. Certamente anche voi avrete visitato alcune grotte, ve ne sono anche in Italia: stupende, meravigliose, eccezionali. Sono piene di stalattiti e stalagmiti, che hanno la suggestione delle foreste incantate o delle cattedrali gotiche. Ma questi luoghi sono oscuri e appunto perché privi di luce, anche voi avrete notato che non c’è un fiore, non c’è un albero, neppure un filo d’erba, forse qualche macchia di muschio, proprio perché manca la luce. Vedete: la luce è la sorgente della vita, di quella fisica e di quella spirituale.

Ecco perché i cristiani venivano chiamati ‘gli illuminati’, perché erano ripieni della luce di Cristo. “Il Signore – dice san Pietro – ci ha chiamati alla sua luce ammirabile”. Noi, se veri cristiani, dobbiamo risplendere. “Risplenda la vostra luce!” L’impegno pasquale del cristiano è questo: portare la luce di Cristo risorto nel mondo. A tutti! Amici, preghiamo affinché le nostre fiaccole non si spengano mai. È questo il significato delle promesse battesimali che rinnoveremo nella Veglia Pasquale. E conceda anche a noi il Signore risorto la grazia di poter dire con il grande Newman al termine della nostra vita terrena: “Ho camminato tanto. Ho faticato e sofferto tanto, ma non ho mai peccato contro la luce”.

Resurrezione, tecnica mista su carta, Pavia, anni novanta

Pasqua

Ciclo A dell’anno liturgico

Pasqua! È Pasqua, amici! Cristo è veramente, realmente risorto. Alleluia! È risorto non soltanto nell’opinione e poi nella persuasione soggettiva degli apostoli e della prima comunità cristiana che da Lui ebbe origine, ma è risorto personalmente, storicamente, sempre Lui, il Gesù del Vangelo. È risorto in una condizione di vita radicalmente nuova, che conserva, ma oltrepassa lo stato della presente, umana esistenza, sublimandone la pienezza, la gloria, la potenza, la spiritualità. Cristo è risorto!

A Lui tributiamo l’omaggio della nostra fede e della nostra esultanza. Alleluia! E poi, amici, lasciamo che la luce, la virtù della Pasqua fluiscano sopra la nostra travagliata umanità, come questa notte l’inno beato dell’Exultet ce ne ha dato l’annuncio e quasi l’esperienza. Perché la resurrezione di Cristo non è soltanto un suo trionfo personale sulla morte, ma è anche il principio della nostra salvezza e della nostra resurrezione. Con Cristo ogni cristiano risorge, deve risorgere. Risorgere dal peccato, che è una sorgente avvelenata della vita. Risorgere con un impegno, uno sforzo di rinnovamento morale e spirituale. Non importa, amici, se l’esperienza della caducità e della malvagità delle forze umane delude ogni giorno le nostre fragili speranze di un domani migliore. Sembra che dagli uomini ci sia proprio poco da sperare. Non importa nemmeno se dal progresso e dal benessere sembrano derivare all’uomo non elevazioni, ricchezze di valori morali e spirituali, serenità, gioia e sicurezza di vita, ma preoccupazioni, tormento, insoddisfazione, noia. Non importa, amici! Perché una nuova, originale, inesauribile sorgente di vita è stata infusa oggi nel mondo da Cristo risorto e questa forza è operante in tutti, operante soprattutto per quanti ne ascoltano la parola, ne accolgono lo spirito e ne compongono il mistico corpo. Cari amici, forse la croce, con la quale Gesù si presenta, ci rende diffidenti e pavidi, orientati come siamo verso l’eliminazione del sacrificio, della disciplina, del dovere. Ma a chi accoglie il Signore risorto, Egli svela il segreto della sua croce, che è luce, forza, libertà e pace. È sì sacrificio, ma per la grandezza morale dell’uomo e per il sopravvento dell’amore che non delude. Io vi auguro che Cristo risorto sia da voi compreso, amato e seguito così. A stimolo di buoni propositi, a conforto dei poveri, dei malati, degli sfiduciati ancor oggi così numerosi.
A tutti, buona Pasqua!

La gloria di Dio

Ciclo A dell’anno liturgico – Giov. 17,1-11, Domenica VII dopo Pasqua

Il gruppo di uomini e di donne, tra i quali Maria e gli apostoli, che si raccoglie, come vuole la tradizione, nel cenacolo, la stessa stanza dove, qualche settimana prima, Gesù aveva istituito l’Eucarestia e aveva pronunciato le parole del Vangelo che abbiamo letto, questo gruppo è il nucleo della chiesa nascente, il germe del nuovo popolo di Dio. Questa comunità orante ha alle sue spalle la memoria della croce del Signore, la sua resurrezione e le sue apparizioni. Ed ha innanzi a sé i tempi e gli spazi determinati dalla storia futura dell’umanità.

Ancora non è sceso lo Spirito Santo. Verrà su di loro il giorno di Pentecoste sotto le forme di vento e di fuoco. Ma questo gruppo, raccolto nel cenacolo, sa che Gesù è già stato glorificato e che il suo compito sulla terra è quello di testimoniare la gloria con cui il Padre lo ha glorificato. Quale è questa gloria con cui è stato glorificato Gesù e per la quale ringrazia il Padre, con una preghiera ardente, ma a volte misteriosa e inaccessibile alle nostre possibilità umane?

Amici, per sollevare il velo che si frappone fra noi e la preghiera del Signore, è necessario innanzitutto spiegare che cosa significa la parola ‘gloria’ che è ripetuta frequentemente. Che cosa è la gloria di Dio? Secondo la Bibbia e secondo la manifestazione piena che questa parola ha avuto sulle labbra del Signore, la “gloria di Dio” è la manifestazione del suo amore onnipotente per le creature.

La gloria di Dio non sono nemmeno le Sue opere considerate in se stesse: l’universo, gli abissi siderali, le creature che popolano la terra e tutti gli spazi infiniti del cosmo. Certamente esse ci parlano di Dio, della sua gloria. Cæli enarrant gloria Dei. Ma la ‘gloria di Dio’ alla quale Gesù si riferisce in questa sua preghiera è la gloria di Dio che crea le cose e le ama perché vede che sono buone. La gloria di Dio è quella che ha creato l’uomo e la donna e li ama e vuole che si amino.

Pensiamoci, amici, la realtà grande non è il fatto che Dio ci abbia creato, ma che ci ha creato per amarci di un amore immenso, che supera ogni nostro merito e attesa. La gloria di Dio rompe le catene degli oppressi, dà la libertà agli uomini contro ogni oppressione, benedice i bambini, dà forza ai piccoli di spirito, il perdono ai peccatori, condanna ogni violenza e prepotenza. Questa è la gloria di Dio; questo è il fiume del suo amore che scorre sulla creazione e vivifica tutte le cose di una vita diversa da quella che il mondo conosce.

Per contrapposto, a chiarire questa grande verità del messaggio cristiano, c’è la ‘gloria del mondo’. La gloria del mondo! È lo Spirito del male, delle tenebre, che si erge contro Dio e contro i figli di Dio. È la forza sinistra e funesta che fin dall’inizio ha tentato di rovinare l’opera divina, La Bibbia ne parla frequentemente fino dalle sue prime pagine. Ricordate quando gli uomini vollero erigere la torre di Babele, una torre tale che permettesse loro di dare la scalata al cielo. La Bibbia annota che quegli uomini cercavano la gloria. Ma noi sappiamo che cercavano la loro gloria, non l’amore di Dio, del creato o dei loro simili. Volevano procacciarsi la gloria come affermazione di sé, come segno di potere, di potenza, di dominio.

Questa è la gloria mundi, l’affermazione di sé stessi, della propria forza, del proprio egoismo, del proprio piacere, del proprio prestigio. E per raggiungere tali obiettivi, che tangenti si pagano e si fanno pagare! La storia ne è la macabra testimonianza. Pensate a Hitler e a Stalin, due nomi contemporanei, ma quanti, quanti di questi nomi affollano le pagine della storia umana! Uomini celebri, potenti truci, che, con un cenno, mandavano a morte gli altri, uomini del potere che hanno a loro disposizione le bombe atomiche e, schiacciando un bottone, possono distruggere la terra. Ecco la ‘gloria del mondo’, mai scomparsa, sempre rinascente. Noi conosciamo le mille forme di questa gloria secondo l’uomo, ne sentiamo l’attrazione, vorrei dire l’appetizione dentro di noi.

Sì, amici. Questa gloria ci può contaminare, contagiare, assalire. Perché ciascuno di noi, in un ambito più limitato, cerca la propria gloria. E sappiamo tutti per esperienza che cercare la ‘nostra gloria’ quasi sempre significa causare in qualche modo il pianto degli altri. Esaminiamo attentamente la nostra vita, amici, non sottraiamoci a questo confronto con la nostra coscienza, con le nostre responsabilità. Quando abbiamo cercato l’affermazione di noi stessi, dei nostri piaceri, interessi, sempre abbiamo seminato intorno a noi delusione, tristezza, pianto, disperazione, nel cuore dei piccoli, dei nostri cari, di coloro forse che ci volevano più bene. Così la gloria dell’uomo diventa inesorabilmente lo stravolgimento dell’uomo, e lo fa non fratello, non amico, ma oppressore, sfruttatore, forse carnefice del suo simile. Homo homini lupus.

Se siamo cristiani, cioè uomini di cuore, animati dalle leggi del cuore, che sono frutto del Vangelo, cerchiamo la gloria di Dio di cui parla Gesù quando dice: “È giunta l’ora, glorifica tuo Figlio”.

Quale è questa glorificazione a cui allude il Signore, adesso l’abbiamo intuito. Non è la sua resurrezione, è la sua crocifissione, cioè l’atto più grande, il gesto supremo di amore di Gesù per gli uomini, un amore che lo ha portato a offrire la sua vita per la nostra salvezza. “Non c’è amore più grande di chi dà la sua vita per la persona amata”. Lui, Gesù, è morto per noi. Amici, per sapere se siamo cristiani, l’essenziale non è vedere se veniamo a Messa, se recitiamo le preghiere, se facciamo la comunione. Certamente sono opere buone, da farsi, ma l’essenziale è confrontarci con la croce del Signore, per vedere se abbiamo il suo cuore, se nella nostra vita noi diamo sempre il primato all’amore. Come diceva sant’Agostino: “Ama, ama Dio e il prossimo e poi fai tutto quello che vuoi”.

La misura evangelica dell’amore

Ciclo A dell’anno liturgico Matt. 5,38-48, Domenica VII del tempo ordinario

Cari amici, oggi tentiamo di misurare il cammino compiuto dalla dottrina cristiana per giungere, sotto la sapiente guida di Dio, alla sua perfezione. Si tratta del punto cardine del Vangelo: ‘l’amore del prossimo’. Nel Levitico, un libro del Vecchio Testamento, il comandamento suona così: “Ama il figlio del tuo prossimo come te stesso”. Come vedete, lo sguardo non valica ancora le frontiere della patria; il prossimo è il familiare, il compatriota. L’espressione ‘come te stesso’, al contrario, è già molto esigente: “penetra nel più occulto recesso del cuore, là dove l’uomo ama se stesso. Non lascia all’egoismo la minima scusa, la minima scappatoia” (Kierkegaard), Possiamo dire che ha la stessa forza dell’istinto di conservazione. Spezza l’involucro di questo bozzolo inestricabile in cui tendo a rinchiudermi: il mio ‘io’. Mi impedisce di preferire me all’altro. Se ho cento, cinquanta a me, cinquanta a lui.

Eppure, il Vangelo fa ancora un balzo in avanti, e quale balzo! Innanzitutto, circa i destinatari dell’amore. Chi devo amare? Soltanto i miei familiari, i miei concittadini? No! Ogni uomo. Perché ogni uomo è mio fratello, è mio prossimo. Quindi devo amare non solo i buoni, gli onesti e gli educati, quelli che mi stimano, ma anche gli antipatici, gli scocciatori, chi pensa diversamente da me.

E noi, cari amici, quotidianamente ci troviamo a contatto con queste persone, in famiglia o sul lavoro, in campo politico e sociale, i rapporti non sono sempre facili, ognuno ha il suo carattere, la sua mentalità. E a volte pensiamo di avere noi il monopolio della verità! Dobbiamo amare, o almeno capire e sopportare.

C’è anche un altro punto degno della nostra riflessione. Ricordate l’episodio del santo Vangelo. Quando un dottore della legge domandò a Gesù: “Chi è il mio prossimo?” il Signore, con la parabola del Buon Samaritano, rispose capovolgendo l’interrogativo di quel Fariseo. Gli disse: “Chi è stato il più prossimo, il più buono verso l’uomo che, aggredito dai ladroni, giaceva morente sulla strada?” Ovvia è stata la risposta. “Il più buono è stato il Samaritano che si è fermato e si è preso cura del ferito”. Vedete, amici, ed è un particolare importante, non dobbiamo chiedere a chi ha bisogno del nostro aiuto e del nostro amore che lui ce lo comandi e ci venga vicino, se vuol godere del nostro amore.

Noi dobbiamo accostarci ai poveri, ai bisognosi, andare verso di loro dovunque si trovino. Ai poveri di beni materiali e ai poveri di valori umani e spirituali. Ha scritto Kierkegaard: “Tutti conoscono il prossimo, ma da una certa distanza… E, visto a distanza, il prossimo è un’ombra che, come una fantasia, si affaccia fugacemente al pensiero”. Molte volte non scopriamo il prossimo che è vicino a noi, magari nella nostra famiglia.

Un’altra indicazione importantissima, che porta a perfezione, a pienezza, il precetto dell’amore. Nostro prossimo è anche il nemico, chi cioè mi vuole male e chi mi fa del male, chi ha invidia del mio bene, chi vuol vedermi soffrire, chi mi calunnia, mi intralcia nel mio cammino, anche chi mi pugnala alle spalle, chi mi imbroglia, chi approfitta della mia bontà, della mia buona fede. Come rispondere? Con il perdono, con l’amore! Dice Gesù: il cristiano “non si lascia vincere dal male, ma vince il male con il bene” (Rom. 12, 21). In nessun caso si giustifica una mancanza d’amore per il nemico, neanche facendo appello all’ingiustizia. Ama senza sperare di essere ricambiato, anzi accetta l’ostilità senza opporre resistenza: benedici e fai del bene a chi ti fa del male. Diceva Don Orione: “Fare del bene sempre, del bene a tutti, del male a nessuno”.

E per quanto riguarda la misura dell’amore, avete sentito: Gesù ci addita l’esempio del Padre e il suo esempio. “Nell’amore del prossimo comportatevi come figli del vostro Padre celeste, il quale fa sorgere il sole sui buoni e sui malvagi e manda la sua pioggia sul campo dei giusti e degli ingiusti”.

E nel proporre se stesso come esempio di vero amore, dice: “Amatevi come io ho amato voi”. Quel ‘come’ è supremamente esigente. Egli ha dato tutto: ha immolato la vita. Qui si va molto al di là di una umana e fraterna comprensione. Ci si spinge fino all’estremo sacrificio.

L’amore del prossimo non è una legge per la quale si può dire: ‘fin qui e basta’, oppure ‘non gli faccio del male, ma stia alla larga’. Certamente, cari amici, ci troviamo sulla linea di una perfezione divina, che alcuni santi esprimevano così: “La misura dell’amore è di amare senza misura”. Conquista che è fatta di piccole quotidiane vittorie sull’ambiente di famiglia e di lavoro in cui viviamo. Vittoria che è possibile solo a quelli che hanno lo spirito di Dio e il cuore di Gesù, e pregano.

Nella memoria dei defunti

Ciclo C dell’anno liturgico – 1980

Amici, tutte le volte che vado al cimitero, provo una strana, seppure famigliare impressione: appena varco il cancello, mi sembra di passare una frontiera e di andare all’estero. Infatti, quando uno muore, si dice che è andato ‘all’altro mondo’. E allora, amici, quando in questi giorni noi entriamo in cimitero, noi varchiamo una soglia, una frontiera. Sono delle parole che, forse, non suonano troppo favorevolmente al nostro cuore: varcare la frontiera di un mondo che non conosciamo, di un mondo che ci fa un poco paura, di un mondo che qualcuno potrebbe anche chiedersi se veramente c’è.

Io questa mattina non voglio domandarvi se credete nell’aldilà. Io vi lascio nella vostra incredulità, se ci siete; vi lascio anche nella vostra negativa completa, se ci siete. Ognuno vede come può, ragiona come può, sente come può! Però io vorrei chiedervi se non avete mai provato un brivido, entrando in quest’altro mondo, sulla soglia di questo mistero che si chiama la morte. È vero che noi non abbiamo mai parlato con nessuno degli abitatori di quest’altro mondo. È anche vero che noi non sappiamo niente di quest’altro mondo, se non quello che ci rivela la fede. È vero che possiamo anche dubitare della sua esistenza, e forse qualcuno di voi ne dubita anche in questo momento. Però veda egli nella sua anima se veramente è tranquillo, se niente ha provato nel cuore quando un familiare o un amico, morendo, è entrato nell’altro mondo, perché, ricordatevi che la morte non può lasciare indifferente nessuno, increduli e credenti. Anzi, chi nega l’aldilà forse fa più fatica a rimanere in questo nostro mondo, che è pur pieno di cose misteriose; fa più fatica di coloro che credono nella vita eterna, l’ateo, a vivere in questo mondo. E allora se, entrando in cimitero, varchiamo la frontiera di un’altra patria che noi cristiani diciamo “eterna e felice”, voi lo sapete, amici: alle frontiere, cosa bisogna fare? Alle frontiere bisogna presentare i documenti, i passaporti, poi c’è l’ispezione dei bagagli; poi c’è il cambio della valuta e tutte le altre pratiche che voi ben conoscete.

Lasciate, o miei cari, che io prenda stamattina, da queste immagini, i motivi di una breve riflessione che, forse, appunto perché molto semplice, può anche essere molto utile. A quella frontiera dell’eternità un giorno dobbiamo presentarci tutti. Questo è sicuro! Quando? Non lo sappiamo. Non importa se sarà tra venti o trent’anni, o tra un anno o prima. La cosa importante è che anch’io un giorno dovrò varcare quella frontiera, come del resto tutti voi, tutti gli uomini.

E Uno, al quale nulla posso nascondere, controllerà, guarderà il mio passaporto, nel quale, oltre al nome è scritta la qualifica: fra’ Costantino, cristiano, frate, sacerdote, e controllerà il bagaglio della mia vita, che contiene un po’ di tutto, come il vostro contiene un po’ di tutto, un po’ di bene, e altra roba di poco o nessun pregio. E dovrò anche denunciare la mia moneta, quella che ho accumulato nella vita. Voi sapete che ci sono delle monete che non valgono negli altri Stati, voi sapete che ci sono anche delle monete false. La moneta che porterò con me, varcando la soglia della morte, sarà valida, sarà accettata nell’aldilà?

È tutto qui, miei cari amici, il segreto della voce misteriosa che in questo giorno parla al mio animo, parla al vostro animo. Quale è la moneta che conta, con la quale possiamo comperare, scusate l’espressione materialistica, l’ingresso nella vita eterna? Vedete, in Paradiso il nostro denaro terreno non è mai entrato. In Paradiso niente vale di questo denaro che noi abbiamo messo insieme, io non so se tanto o poco, non so se l’abbiamo accumulato bene o male.

Il denaro della terra con il quale tante volte gli uomini comprano l’onore, la libertà, il piacere e anche la coscienza, e qualche volta anche i posti di potere e di responsabilità, questo denaro non può comperare il giudizio di Dio!

C’è di più, miei cari amici. Nemmeno le presentazioni o le raccomandazioni che noi possiamo chiamare onorevoli servono a rendere benevolo il giudizio di Dio. Nessun titolo conta per l’altro mondo. Davanti a Dio non conta niente essere onorevole, essere eminenza o eccellenza, avere la mitria sulla testa o il berretto da contadino. In quell’altro mondo è inutile presentare i nostri biglietti da visita con quelle piccole vanità di titoli che pare rappresentino qualche cosa presso gli uomini e invece non valgono niente davanti a Dio. E anche quei titoli che leggiamo sulle lapidi dei cimiteri, noi sentiamo che hanno un suono di tristezza immensa e servono a noi più che ai nostri cari morti. Contano niente! Che cosa importa se uno era molto intelligente, se uno era arrivato in alto: guardatelo come è in basso adesso che è morto! Guardate come non può più niente! Là, nell’altro mondo, c’è l’uguaglianza completa.

Eppure, eppure c’è una moneta che vale per l’eternità. Anzi, due monete che contano. Sapete quali sono? Eccole: la bontà e la misericordia. Ieri, celebrando i Santi, abbiamo parlato degli uomini buoni. Quella, vedete, la bontà, è l’unica moneta che varca le soglie della vita terrena e serve per la vita eterna. La bontà! Ma la bontà, voi lo sapete, non è una moneta che possiamo farci prestare o rapire. La bontà è una moneta che bisogna guadagnarsi personalmente, con il cuore, con tutto il cuore, perché non è la bontà che entra in cielo, è l’uomo buono che va in Paradiso, è colui che si è sforzato di mettere nella sua vita, nelle sue azioni, nei suoi sentimenti, nelle sue parole, in tutto quello che è l’espressione del vivere umano, si è sforzato di mettere qualche cosa del cuore buono.

Ecco, vedete, questa è la prima moneta che vale: la bontà, anzi la moneta pregiata, la bontà, il cuore buono. Eppure, sarebbe una moneta insufficiente, se a questa non se ne aggiungesse un’altra: la bontà di Dio, che è espressa nel sangue di Cristo redentore. Lui, Cristo, ci ha meritato la salvezza. Non dimentichiamolo mai! Io, nonostante alcune qualità positive che possiedo, nonostante gli sforzi che faccio per mettere insieme un po’ di bene, sono sempre incapace di varcare la frontiera del Paradiso. Quando io mi presenterò nell’aldilà, sarò uno zero, cioè incapace di guadagnare da solo la salvezza. Così voi – perdonatemi se facciamo l’uguaglianza nel basso – voi siete altrettanti zeri, perché di fronte a quello che il Signore ci ha preparato, cosa volete mai che sia la nostra povera moneta, anche quando è una espressione di bontà?

Ecco, siamo degli zeri, ma dobbiamo essere degli zeri puliti, degli zeri chiari, senza peccato, degli zeri pieni di sentimento, degli zeri che hanno sospirato verso l’aldilà, degli zeri pieni di speranza. E allora, vedete, c’è Uno – forse non ci avete mai pensato all’ufficio del Salvatore! – il Sangue di Cristo, quando il Venerdì Santo noi lo vediamo colare ai piedi della croce: forse non ci siamo mai domandati a che cosa serva questo prezzo della nostra redenzione!

Allora, vedete, davanti all’uomo buono, di questa bontà che è una briciola, di questa bontà che è uno zero di fronte a Dio e al Paradiso, ma che deve essere sempre, però, uno sforzo verso qualche cosa che non sia semplicemente roba di terra, roba di denaro, roba da mangiare, roba da godere, allora basta uno sguardo, basta un sospiro, e vedete Dio, con le mani forate e sanguinanti del suo Cristo, che mette davanti allo zero, al nostro zero, la croce, l’unità che conta. Ave, Crux, spes unica.

E allora cosa succede? Succede questo. Io sono uno zero, io sono due zeri, voi siete come me: uno, due, tre zeri. Ma c’è una mano forata, quella di Cristo, che ha tracciato davanti il valore, l’unità. E i miei zeri, i vostri zeri, ecco, per la divina misericordia, sono diventati un 10. Ecco, il cambio è avvenuto; è avvenuto bene, si alza la sbarra, per noi c’è via libera per il cielo.

Amici, come conclusione, voglio farvi un augurio, farlo a me, farlo ai miei morti, farlo a voi e farlo a tutti i vostri morti: che, quando passeremo la frontiera dell’eternità, e si fa presto a passarla, forse prima del previsto, Cristo, riconoscendoci suoi amici, tracci quell’ uno che diventa una croce piena di luce e che rappresenta la certezza di una accoglienza, per cui anche il cielo plumbeo di questa mattina finisce di spaccarsi e possiamo vedere che i nostri morti sono arrivati non soltanto oltre la frontiera, ma sono arrivati nella gloria del Paradiso.

Padre Nazareno Fabbretti, un’avventura condivisa

Chiara Rovati

Padre Nazareno Fabbretti svolse il compito di divulgare opere e pensiero artistico di padre Costantino Ruggeri, legandosi a lui con un’amicizia profonda, ammirandone l’attività e l’impegno creativo. Nello Studio Ricerche Arte Sacra nel convento di Canepanova, portava con sé una macchina fotografica che utilizzava per documentare le opere del confratello destinate a cappelle, chiese e santuari. Sapeva coglierne il fascino di autentica espressione di un animo francescano, singolare nell’intendere la povertà, l’essenzialità di forme lontane da rivisitazioni di linguaggi arcaici e di manierismo, l’amore per la verità e la semplicità. Gioiva della natura cantata nelle vetrate artistiche, della materia trattata in modo vigoroso.

In occasione dell’ottavo centenario della nascita di san Francesco, padre Nazareno condivise con il confratello la realizzazione di una cartella di ventiquattro tavole, eseguite da padre Costantino, dedicate ai compagni del santo e commentate con brani scelti da fonti francescane. Con lo stesso criterio composero insieme anche il volume Quivi è perfetta amicizia, arricchito da ulteriori venti personaggi e testi biografici. Non ci è noto come essi pervennero a identificare i vari personaggi e a decidere per l’inserimento di figure contemporanee come Gandhi, don Orione, Madre Teresa di Calcutta.

In alcuni articoli padre Nazareno ha riconosciuto nel ritratto di san Francesco realizzato da padre Costantino “una delle interpretazioni più intense e fedeli psicologicamente e spiritualmente: il volto di Francesco per l’uomo d’oggi e di ogni tempo”. Durante una sosta forzata per motivi di salute, Ruggeri si rivolse al confratello per la costruzione di un’autobiografia. Prese allora corpo un’intervista vivace con la pubblicazione del libro Soltanto un fiore. Genesi di un artista cristiano, in cui si avverte la grande amicizia che si era andata consolidando tra loro anche per la profonda comprensione delle peculiarità di carattere, pensiero e realizzazioni del frate artista da parte dell’amico. In esse padre Nazareno vide “una risposta vissuta, non teorica, alla riforma liturgica conciliare e all’inventiva libera e fedele che il ‘nuovo tempio’ esige da ‘adoratori che adorino in spirito e verità’ ”.

1964
Sui muri delle chiese la beatitudine della povertà

“Fiamma Nova”, a. XXIX, n. 12, dicembre 1964

Sembra che non voglia parlare, ma basta saper insistere perché le sue parole tocchino i pensieri come le sue mani toccano il marmo, la creta, il cristallo, il cemento e l’acciaio: con delicata fermezza, con passione ed amore. È un pittore che ha vinto due premi — il San Fedele e il Marzotto — ma è un frate che da parecchi anni ha messo in disparte la pittura, per dedicarsi al problema generale dell’arte sacra in Italia. Non appartiene a scuole o a cenacoli, pur non essendo affatto selvatico.

Solo che il tempo non gli basta mai per fare, cioè per offrire gli ‘argomenti’ più dimostrativi di quello che cerca, di quello che vuole. È amico di architetti coraggiosi come Figini, e di maestri come Minguzzi, che venera sconfinatamente ed ammira; ma non lo troverete mai a ‘vernici’ o a incontri di squisita cultura. Ha da fare, e fa, dalla mattina alla sera.

Ritorno alle catacombe

Solo quando lo si provoca, si serve anche delle parole. Dapprima comincia con esitazione; poi si scalda, e le cose che dice finiscono per splendere come i famosi cristalli policromi delle sue ardite vetrate. È stato ascoltandolo, in uno di questi pomeriggi ottobrini, che mi è venuto il desiderio di scrivere una specie di ‘salterio dell’arte sacra del nostro tempo’: basterebbe raccogliere e ordinare le cose che Padre Costantino Ruggeri dice; si avrebbe la spiegazione più appassionata e documentata di tutto quello che fa. Magari lui non se ne rende affatto conto, ma a Pavia, nel convento francescano di Canepanova, dove abita da anni, è cominciata la fase più coerente e coraggiosa della ‘rivoluzione’ dell’arte sacra italiana. In questo senso gl’interessano pittura e scultura, architettura e liturgia. L’arte sacra, per questo frate bresciano di pelo rosso e di occhi chiari, è un ritorno all’essenza espressiva delle catacombe, con in più la luce. Ma è anche un ritorno alla povertà: povertà come virtù, come condizione di spirito, come limpidezza interiore per leggere e decifrare il segreto delle cose, della luce come della materia; povertà nei muri e negli spiriti. Solo a questa condizione è possibile, secondo Padre Costantino, fare chiese che aiutino a pregare, e farsi capire ed accettare subito da tutti coloro che vi debbono pregare insieme, clero e popolo.

“Capisci che la chiesa di pietra può diventare un ostacolo alla Chiesa viva formata dalla comunità dei fedeli? – mi dice cominciando il suo meraviglioso sfogo – Certe chiese moderne (chiese alla moda e basta) possono compromettere per lungo tempo la penetrazione evangelica nella società contemporanea. Anche il mondo dei ‘miracoli economici’, nonostante le apparenze, quando si avvicina a Dio, non desidera affatto di ritrovarsi tra i piedi le pompe, le ricchezze, le bardature, cioè le ipocrisie che ha già incontrato nella vita quotidiana: vuole e cerca l’assoluto contrario: la semplicità, l’essenza, il segno materiale minimo che lo aiuti ad elevarsi al piano del mistero e a respirarvi, cioè a pregare. I muri stessi della chiesa devono poter predicare a questa gente affamata e assetata di spirito e di bellezza le beatitudini: povertà, purezza semplicità”.

Padre Ruggeri è un povero che s’è fatto ancora più povero indossando, fin da bambino, il saio francescano. Il criterio della sua arte è anche l’impegno della sua vita di sacerdote e di religioso. Nelle due cappelle che finora ha potuto plasmare, almeno in parte, secondo i suoi sogni (la chiesa e la cripta del seminario a Mantova, la cappella dello studio francescano, a Varese) dimostrano che il suo spirito ed il suo criterio si sono fusi alla perfezione, e che i talenti estetici hanno sorretto ed espresso le intenzioni rinnovatrici e liberatrici del giovane francescano. La pala d’altare della cappella dell’Aeroporto di Linate, la vetrata della Chiesa di Pioltello, presso Milano, la grande croce di cristalli policromi alla Madonna dei Poveri, a Milano, sono già documenti più che qualificati d’una coerenza e d’un’essenzialità che trova le sue radici nel Vangelo. Padre Ruggeri è nato ad Adro, presso Brescia, ed ha sempre seguito, in questi anni, una linea che è andata crescendo in rigore e significato religioso.

Lui, la luna l’aveva già vista

Quando cominciò a dipingere, i frati si scandalizzarono, davanti ai suoi ‘mostri’; poi lo lasciarono fare, prendendolo per un ‘fissato’; ma presto hanno dovuto arrendersi, davanti all’interesse della critica, ai riconoscimenti delle giurie, al crescere dei committenti. D’altronde, le mostre che il frate pittore ha tenuto a Genova, a Milano, a Biella, a Brescia, significano che non si tratta di uno che segua una ‘moda’, ma esattamente del contrario: di un artista e di un sacerdote che ha qualcosa da dire di veramente suo, e solo in quel modo riesce a dirlo.

Se gli verrà dato, come si spera, di poter lavorare alla nuova cappella del seminario regionale di Bologna, e quando si vedranno le opere da lui concepite, in collaborazione con l’architetto Figini, per la nuova grande chiesa che Milano intende offrire a Paolo VI, si avrà effettivamente la misura del talento, dell’ispirazione e della fedeltà di questo artista solitario e schivo ai moduli più interiori che esteriori della propria arte. Il suo discorso non è senza polemica; ma per non dar nelle nuvole Padre Costantino offre la sua opera, ciò che finora ha fatto, ciò che intende fare. Quando ha visto le foto della luna scattate dal Ranger VII, si è accorto d’aver trattato la materia, nelle pareti dei suoi tabernacoli di bronzo dorato, come se la luna lui l’avesse già vista: la stessa materia, le medesime modulazioni; come dire la esecuzione del motto dell’Apocalisse: “Terre nuove, cieli nuovi…”. E tutto in semplicità, senza vanto, senza provocazione.

Solo quando vede chiese opulente e assurde, brutte oltreché inutilmente ricche, il frate mite perde le staffe: “Certe chiese monumentali servono più la vanità degli uomini, la loro brama di potenza esibizionista, la loro sete di denaro, che la gloria di Dio e la gioia dell’uomo. Dio, mediante l’Incarnazione, ha scelto, non a caso, la condizione di povero, un’umile dimora: e il tempio cristiano, che lo offre crocifisso all’adorazione dei fedeli, non può essere mai troppo ricco senza tradire in qualche modo questo mistero perenne. Quello che dico l’ho ritrovato in San Basilio, in San Giovanni Crisostomo, non sono novità. Ma sono cose dimenticate, e non è male ricordarle. Ad esempio: una chiesa ricca in un quartiere povero: è una bestemmia, secondo me. Soprattutto se si tratta delle ‘chiese dei padroni’. La chiesa deve essere bella, ricca di bellezza, non di materiali provocatori. Di solito, più una chiesa è materialmente ricca, più è brutta. Basterebbe guardare la povertà luminosa delle nostre chiese più antiche, per far sì che l’uomo del nostro tempo ritrovi la sua casa nella Casa di Dio”. Su questo tema, è difficile fermarlo: “Il lusso nella casa di Dio! Impariamo a onorarlo come desidera, non come immaginiamo che desideri. Facciamo delle chiese povere, semplici, luminose, austere, ma vive e vere. La liturgia comincia da questa forma di bellezza viva. La funzione liturgica ha senso, del resto, se favorisce l’incontro e il colloquio con Dio, non se ribadisce un classismo sociale e religioso addirittura accanto all’altare”. Tutto quello che dice, Padre Ruggeri lo fa, cerca di farlo, E chi gli ha dato libertà di fare non si è dovuto pentire. Il Vescovo di Mantova gli ha confessato che nella cappella del seminario prega bene, che le cose del ‘frate informale’, come lo chiamano per scherzo, ‘stanno su’, vanno bene. E i seminaristi sono entusiasti. È questo che conta. Il resto lo diranno, sempre più, a raggio nazionale ed internazionale, i fatti di questo candido ed appassionato francescano.

1965
L’opera di frate Costantino Ruggeri

“Chiesa e Quartiere”, n. 32, gennaio 1965

Ad accostare l’opera artistica di Padre Costantino Ruggeri, l’elemento che subito sorprende e persuade è quello dell’unità di tutti gli elementi, la corrispondenza formale e funzionale fra le opere singole e il complesso dell’edificio di cui fanno parte. Trattandosi di chiese, la conseguenza evidente è il valore liturgico, immediato, dinamico, esemplificatore. È evidente che ciò non si risolve in una ricerca e in un esperimento personale. Esperienza e ricerca sono, in Padre Ruggeri, un punto complesso di partenza, più che un punto d’arrivo. Se polemica c’è e inevitabilmente c’è in un’opera del genere, essa scaturisce dai fatti, dalle conclusioni, da un dato stile e da un preciso linguaggio. Stile e linguaggio pongono necessariamente una serie di confronti il cui valore stimolante non può sfuggire a nessuno. Non è detto che Padre Ruggeri non si ponga in posizione polemica – quanto meno di discussione e di rifiuto davanti a tutto un malcostume d’arte che si ostina a chiamarsi sacra – ma non polemizza mai per la polemica in sé, non accetta mai che le parole possano in qualche modo supplire ai fatti.

Padre Ruggeri non s’illude sull’utilità delle diatribe accademiche in cui possono essere affrontati i problemi più delicati ed urgenti dell’arte in genere e dell’arte sacra in specie. Un caso, dunque, che va accostato tenendo conto, prima di tutto, di una condizione fondamentale, che non supplisce certo ai talenti, ché non ce n’è bisogno, ma che spiega la forza d’immedesimazione di questi talenti nella realtà della materia trattata da una parte e nel contesto liturgico più coraggioso dall’altra: il fatto che Padre Ruggeri è un sacerdote ed un francescano.

Egli non s’è mai accostato a un’opera senza avere meditato il problema complessivo dei rapporti con gli ‘altri’ (in questo caso, con Dio e con i fedeli). Gli ‘altri’, tuttavia – lo si avverte chiaramente nelle cappelle che Padre Ruggeri ha potuto plasmare con una certa libertà d’azione – non sono tanto i credenti, quanto i non credenti. Alcune ragioni e giustificazioni fondamentali dell’opera di Padre Ruggeri acquistano – in questo clima di Concilio e di riforma liturgica – un aspetto ed un valore ‘ecumenici’, in quanto il tempio cristiano, adeguandosi all’anelito di un’epoca, proprio mentre si articola nel mistero e nel dialogo preciso della liturgia cristiana, si dilata, in un dialogo che può essere sempre aperto a tutti gli uomini. La chiesa come l’ha compresa e la plasma Padre Ruggeri non risulta affatto il luogo dove non di rado, in buona o in mala fede, per secoli, si è espresso, più che l’intimità della famiglia cristiana, un certo insopportabile “classismo (se non razzismo) religioso”: il classismo dei privilegiati della verità, a scorno e umiliazione dei privati dello stesso dono. Le pietre di molti templi, anche ineccepibili dal punto di vista di un’estetica valida per se stessa, sono diventate, nelle mani di alcuni, armi con cui lapidare la fede, la speranza, la tristezza e il dubbio di chi non crede abbastanza, di chi osava dubitare o non unirsi al canto cristiano dell’adorazione.

Entrare nelle cappelle curate da Padre Ruggeri, significa mettersi in contatto con una realtà che può non essere compresa, accettata e condivisa, ma che non punta mai sull’ambiguità, che non fa mai un discorso allusivo, che non strizza mai l’occhio agli iniziati per costringere il ‘profano’ a sentirsi il più straniero possibile proprio nella casa del ‘Dio ignoto’. Le chiese di Padre Ruggeri non sono mai, insomma, chiese per privilegiati, ma piuttosto chiese per responsabili, chiese per credenti liberi e consapevoli.

Padre Costantino Ruggeri non è un artista che abbia improvvisato un modulo e uno stile per aver fiutato in anticipo l’inevitabile orientamento dell’arte e della liturgia in futuro. La sua opera è frutto di una silenziosa fedeltà all’ispirazione stessa dell’adolescenza ed alla fatica della maturità. Partito dalla scuola di Mario Sironi, ed espressosi soprattutto, fino al 1959, in opere di pittura, con gli anni si è andato decantando e orientando sempre con maggiore passione verso l’arte sacra come responsabilità del tempio cristiano.

Come pittore, dopo aver esposto in numerose mostre personali, da Genova a Milano, da Brescia a Roma, da Mantova a Varese, è entrato nella valutazione della critica ufficiale con risultati che a un artista poco esigente sarebbero potuti apparire più che lusinghieri. Non sono mancati due notevoli premi, come il Marzotto ed il San Fedele (questo diviso ex aequo con altri), ambedue del 1954: e nemmeno è mancato l’interesse della critica straniera. A questo punto, Padre Ruggeri ha posto la pittura in secondo piano, ed è partito alla conquista (non vi sono altre parole adatte) di alcuni spazi in cui gli fosse finalmente possibile esemplificare al massimo il concetto che in lui era venuto maturando di Domus Dei. Tali spazi, per ora, li ha sempre dovuti accettare prefabbricati, con situazioni topografiche e condizioni di luce obbligate; ma anche entro questi limiti (com’è successo per la Cappella del Seminario di Mantova e per quella dello studio francescano di Varese) il francescano è sempre riuscito a dire quasi tutto quello che voleva. I risultati non sono stati soltanto di conferma formale, ma anche di felice ‘proselitismo’ negli stessi ambienti ecclesiastici, che, come tutti sanno, sono sempre i più tenaci ad arrendersi, i più felicemente schiavi del cattivo gusto. Il Rettore del Seminario di Mantova (e lo stesso Vescovo di quella città), i superiori di Varese, i seminaristi, i giovani studenti francescani sono stati i primi e più qualificati testimoni della riuscita dell’esperimento artistico liturgico di Padre Ruggeri. Tutti hanno affermato che nelle sue cappelle ‘si prega’ e che le sue ‘cose’ reggono. Ammissioni, per chi conosca il gusto prevalente in certi ambienti, addirittura ‘rivoluzionarie’. Segno, comunque, che l’eloquenza dei fatti è sempre superiore a ogni logica polemica. Ma dare opere compiute, dimostrare come, ad esempio, anche una cappella in cui non appaia nessuna ‘figura’ in senso tradizionale, ad eccezione del Crocifisso sull’altare, possa indurre a pregare e a meditare, non distraendo e non ottundendo le reazioni spirituali più dinamiche del fedele, questo è quanto si può e si deve fare. Padre Ruggeri sostiene che esiste, anche in Italia, a proposito di arte sacra, assai più libertà di quanto non si creda. Esistono vescovi illuminati, rettori di chiese sensibilissimi, rispettosi di un’epoca e delle concezioni di un artista; esistono soprattutto giovani sacerdoti e seminaristi che non partono mai condizionati dal preconcetto e sono disposti ad accettare ogni sincera esperienza, anche quella che può apparire la più avanzata. Se molti artisti non spingono, non cercano, non provocano (poiché anche l’arte sacra partecipa a quello ‘scandalo cristiano’ che coincide con la vita stessa del cristianesimo) ciò non dipende dalla mancanza di libertà, ma piuttosto dall’aridità, dalla sterilità, dall’impotenza di certi artisti, uomini di calligrafia, capaci di dettaglio ma non di concezioni organiche e universali, capaci soprattutto di rischiare in proprio, senza coinvolgere in partenza l’autorità.

In questo senso a Padre Ruggeri è indubbiamente servita l’esperienza dei suoi esordi di pittore in convento. Davanti ai suoi ‘mostri’, i suoi confratelli si strapparono subito le vesti, all’inizio. Erano troppo abituati a cappelle linde e soffici come camere da letto, a immagini di Cristo, della Vergine e dei Santi rosee, patetiche, lacrimogene, insomma giustificanti tutte le ambiguità di una pietà e di una liturgia più statica che dinamica, più passive che attive. Si arresero solo col tempo, sotto gli occhi i ‘mostri’ cominciarono a decifrarli, inquietati da certi segni nudi ed efficaci, da certe fiammate di colore che dicevano tante cose.

Oggi sono pochi a sorridere dell’opera di Padre Costantino; e non pochi ne sono fieri, senza darlo a vedere: un frate che ha incarichi d’intere cappelle, che vince due premi famosi, che espone in tutta l’Italia, è comunque un fatto almeno rispettabile. Ma soprattutto hanno subito, prima e poi, accettato, almeno in parte, il mondo stesso del frate artista. Questo significa che anche in ambienti preconcetti e negati in partenza – se non addirittura polemici – si può operare una chiarificazione, rivelando la ‘novità’ necessaria proprio là dove si stanno formando (o deformando) se non proprio i classici ‘committenti’ del nostro tempo, certo le autorità esecutive delle ‘commesse’. È importante notare, nell’esperienza conventuale di Padre Ruggeri, soprattutto il significato di un fenomeno del genere. Prima che le pietre e i cristalli, Padre Ruggeri ha plasmato, con anni di candida e felice pazienza, gli uomini più vicini. Ha quanto meno seminato in loro il dubbio che l’arte sacra finora accettata sia tutta ‘bella’.

Ma i ‘convertiti’ dall’arte di Padre Ruggeri non sono in grado, forse, di spiegare il motivo più intimo e profondo della loro ‘conversione’. Anche se sono frati minori, seguaci di San Francesco, è probabile che comprenderanno solo in seguito che una delle spiegazioni fondamentali del fenomeno del loro confratello sta proprio nell’essenza francescana della sua fatica e dello spirito che la anima: cioè nella povertà. È infatti nel confronto con la povertà cristiana e francescana quale forma di libertà interiore ed esteriore che Padre Ruggeri riconosce la forza spirituale del proprio tentativo, e la necessità essenziale di tutta l’arte sacra, in ogni tempo, ma soprattutto oggi. Padre Ruggeri è stato molti mesi nelle catacombe, a decifrare la natura simbolica e la forza espressiva degli essenziali simboli del giovane cristianesimo. Ha scritto – proprio su queste pagine – anche un documentatissimo saggio sui risultati della sua ricerca. Ha scoperto, fra l’altro, che la natura ‘cimiteriale’ delle catacombe imponeva per se stessa, nelle ornamentazioni artistiche, l’essenzialità, la suprema semplicità della vita a confronto con la morte nel segno della fede. Semplicità come povertà. E proprio perché quell’arte era semplice, alludeva con suprema efficacia al ‘dialogo’ fra Dio e il defunto, ma anche al ‘dialogo’ tra il defunto ed i vivi, e tra i vivi e Dio, cui il defunto li conduceva nella preghiera e nella speranza della Resurrezione. Il saggio di Padre Ruggeri finiva con queste precise parole: “Sulle pareti delle catacombe i primi cristiani hanno affidato un sorprendente patrimonio di preghiera, di gioia e di speranza a pochi segni scarni e disadorni, che non rivelano acutezza d’osservazione del mondo circostante, esuberante fantasia, preziosità cromatiche e arditezze compositive. Eppure questi segni sono trasfigurati da un ardore religioso, da un senso di perennità e di attualità tali da commuoverci e da trasportarci nella sfera del più puro misticismo. E non è forse questa possibilità e intensità di colloquio che rende contemporanee opere così lontane nel tempo?”.

Ecco la povertà come spogliamento del superfluo, come trasparenza di simbolismi, come essenzializzazione del mistero religioso, che essendo ‘ineffabile’ cioè inesprimibile nella sua totalità, esige, per essere espresso efficacemente, il ‘minimo’, non il ‘massimo’ dei mezzi espressivi. Da un colloquio con Padre Ruggeri ho potuto ricavare queste osservazioni, che trascrivo alla lettera, per il valore di spiegazione formale-liturgico-sociale che contengono e per la provocazione che, in totale serenità, sono in grado di determinare.

“Bisogna stare molto attenti: la chiesa di pietra può divenire spesso un ostacolo alla chiesa viva. Certe chiese ‘moderne’ (chiese alla moda!) possono compromettere per lungo tempo la penetrazione evangelica nella società contemporanea. I muri stessi della chiesa debbono predicare le beatitudini evangeliche: povertà, purezza, semplicità. È un’ingiustizia che vi siano chiese gigantesche, in certi quartieri, mentre immense periferie mancano di chiese povere. Dobbiamo badare più alla povertà radiosa delle nostre antiche, esemplari chiese, se vogliamo che l’uomo del nostro tempo ritrovi nella casa di Dio la sua stessa casa. E noi, che stiamo a difendere, spesso, addirittura la legittimità del lusso nella casa di Dio, col pretesto che Egli è padrone di tutte le cose. Come se Lui medesimo, in Cristo, non ci avesse dato il metro, l’esempio, lo stile medesimo, direi, di che cosa vuole, di come lo vuole, come esige che gli uomini gli rendano onore nel culto. Impariamo a onorarlo come Egli desidera, non come immaginiamo che desideri, ci avverte S. Giovanni Crisostomo”.

È in quest’ultimo pensiero che va cercata la ragione-forza di tutta l’attività artistica di Padre Ruggeri: si tratta di un tentativo appassionato di ricerca della stessa visuale di Dio circa il suo tempio, e circa la nuova liturgia cristiana, che non può essere più quella aurea e trionfalmente materiale del tempio ordinato da Dio stesso a Salomone nel Vecchio Testamento. Che cosa vogliamo dai nostri artisti? ‘Vogliamo – mi risponde Padre Ruggeri – delle chiese semplici, austere, vive e vere’.

Ed ecco l’intuizione che fa da base a tutta la concezione artistico liturgica di questo appassionato testimone dell’arte sacra: la luce. Un ritorno all’essenzialità dell’arte catacombale, con in più la luce. Chi conosce le vetrate di Mantova, di Varese, di Pioltello, ideate, montate e finite da Padre Ruggeri con le sue stesse mani, tutte su telai di ferro e cemento, in puri giochi di cromatismi di colore, sa che cosa egli voglia intendere con il principio stesso della sua modernità che suona appunto ‘con in più la luce’. In quelle vetrate non c’è una sola figura; si tratta soltanto di cristalli colorati presi direttamente alla sorgente, cioè alle colate delle vetrerie di Murano; sono stati contrapposti, ‘giocati’ secondo rapporti allusivi di luce e di colore in funzione della resa mistica dell’ambiente a cui fanno da parete, come a Mantova e a Varese. “La luce – continua Padre Ruggeri – è la grande conquista della nostra epoca; la chiesa dev’essere la casa stessa della luce. Molti miei amici artisti mi hanno detto, dopo essere entrati in chiese ‘moderne’ e brutte, che d’ora innanzi andranno a pregare nei boschi, o in riva al fiume. Non sono riuscito a dar loro torto. Abbiamo bisogno di ritrovare la semplicità, per ritrovare la pace ed essere capaci di gioia. Questa è moralità: nella casa di Dio, così intesa, tutto si manifesta nella sua autentica essenza. Il mattone sia mattone, il ferro sia ferro; il legno, legno; pietra la pietra; ed anche il cemento, questo parente povero delle altre materie, che però tanto vigorosamente esprime le ansie del nostro tempo, sia sé stesso. La povertà, anche da questo punto di vista, diventerà la legge risanatrice che sola può liberarci dall’inganno formale, e portare ogni cosa alla sua massima espressione, ed al miglior rendimento. La funzionalità liturgica ha senso solo se favorisce il colloquio e l’incontro dell’uomo con Dio. Questo luogo è terribile, è scritto nella Bibbia; ed ancora: Quanto sono amabili le tue tende!: solennità ‘terribile’ e ‘amabilità’ persuasiva: ecco il binomio inseparabile che dobbiamo armonizzare”. Da tutto questo è evidente, per chi conosce ciò che Padre Ruggeri ha già fatto, che il più e il meglio gli può essere consentito in futuro. Il sogno di Padre Ruggeri è infatti quello d’avere una chiesa a disposizione tutta per sé, in cui non doversi trovare condizionato da equivoche situazioni ambientali preesistenti. Ciò può essergli servito di stimolo in passato, ma non sarebbe che una limitazione in futuro. Il “sogno”, attualmente, per quanto io sappia, consiste soprattutto nella speranza d’avere a disposizione la futura cappella del Seminario Regionale di Bologna. Un nuovo contatto di questo religioso artista col mondo ecclesiastico più qualificato – e proprio in un’area coraggiosa e feconda come quella creata dal risveglio liturgico guidato dal Card. Lercaro – sarebbe un’occasione unica per questo pioniere della ‘nuova’ arte sacra. E un’opera come quella che egli concepisce non potrebbe non risolversi se non in felice ‘integrazione’, anche se indiretta, della pedagogia e della formazione religiosa ed estetica impartita nei seminari.

Uno dei problemi attuali di maggiore impegno, da parte di Padre Ruggeri è quello degli arredi della chiesa. La maggior parte di essi è palesemente grottesca, anacronistica, il contrario esatto della semplicità e della intensità che dovrebbero rivelare. Sarà anche questa un’esperienza interessante, che potrebbe rivoluzionare il settore più micidiale del cattivo gusto: quello della ‘grande paccottiglia’ costosa e trionfante. È tutto da rifare, in un certo senso: candelieri, paramenti, accessori.

Quando la gente ritroverà nel tempio cristiano la trasparenza delle cose, ricomincerà non soltanto a capire, ma ad amare, accettare e adorare il mistero di Dio. Solo allora la chiesa s’inserirà nel vivo drammatico e stimolante delle altre case degli uomini, senza apparire eccentrica, grottesca, come troppe volte risulta. Tornerà ad essere la casa dell’uomo amico di Dio, e di Dio amico dell’uomo.

Tutto ciò che comporta un ideale ed un impegno del genere, significa l’unica, vera, legittima ‘rivoluzione’ possibile, anche in Italia, sul versante dell’arte sacra. Occorrono uomini che facciano, che credano, che non aspettino gl’incoraggiamenti ed i crismi. Ma prima che una nuova legislazione canonica possa essere pronta per regolare i rapporti fra arte e culto, diamo ai legisti materia prima coraggiosa e viva per non codificare l’ovvio, il brutto, l’inutile, il pomposo.

Padre Ruggeri non è esente da critiche (non sarebbe un vero artista); e qui non si è voluto scendere all’esame appunto criticamente specifico della sua opera, del suo stile. Si è voluto segnalare piuttosto un “caso umano” di straordinario, polemico, interesse. Perché non è soltanto di idee che l’arte sacra ha bisogno in Italia: ha bisogno di uomini. Questo è certamente uno.

1964
Il rivoluzionario dell’arte sacra

“Orizzonti”, n. 37, 18 ottobre 1964

Padre Costantino Ruggeri si sdegna violentemente davanti al pessimo gusto dilagante in molte chiese. Allora le sue mani da manovale cominciano a volteggiare per fare dell’arte come l’intende lui: un ritorno alle catacombe, più un trionfo di luce e di colori. I suoi confratelli lo chiamano ‘il frate informale’, ma con un’ironia molto affettuosa, tanto per nascondere un’ammirazione che in questi anni è andata sempre più crescendo. Partito dalla scuola di Mario Sironi, Padre Costantino Ruggeri, un giovane francescano di pelo rosso e d’occhi chiari, dalle mani callose e dagli entusiasmi tenaci, è andato progressivamente accantonando la pittura – in cui riconosce tuttavia la sua vera vocazione artistica – per dedicarsi al problema complessivo e totale dell’arte sacra in Italia.

Padre Ruggeri scrive poco, e fa molto. Crede soprattutto ai fatti. Come non l’hanno lusingato eccessivamente due fra i maggiori premi italiani di pittura – il San Fedele ed il Marzotto – presi nel 1954 – così non lo deprimono affatto i confratelli, i fedeli, i critici che continuano tuttora, anche se sono sempre meno, a stracciarsi le vesti davanti alle sue opere. Ciò che gli sta a cuore è soprattutto fare. Davanti ai fatti, tutti debbono accettare una realtà, almeno discuterla.

Non è che Padre Costantino non soffra di robuste e violente indignazioni. Certa paccottiglia cattolica, certo pessimo gusto dilagante nelle nostre nuove e vecchie chiese, lo gettano in preda al furore. Allora si sfoga, con violenza salutarmente iconoclasta, contro chi se lo merita. Ma la bufera dura sempre poco. Di colpo il frate bresciano (è nato ad Adro, presso Brescia, nel 1925) cambia discorso, fa volteggiare le belle mani da manovale, e comincia un’altra musica. “Non serve nemmeno polemizzare. L’importante è di concludere qualcosa. Il pessimo gusto, l’adulterazione dell’arte sacra, dei muri, delle stesse suppellettili sacre – mi dice – non possono essere smantellati se non con delle chiese nuove e belle. Pazienza le vecchie chiese brutte; sono irrimediabili. Ma con le nuove dovremmo partire bene, dovremmo approfittare dell’occasione, tanto tenendo conto dell’evoluzione che ha raggiunto la sensibilità complessa dell’uomo del nostro tempo che accettando come spinta preziosa le riforme liturgiche dettate dal Concilio. Il Signore, nell’Apocalisse, dice che esige e intende fare ‘nuovi cieli e nuove terre’: bisognerebbe collaborare, cominciando a fare chiese belle, case dell’uomo e di Dio nello stesso tempo, chiese che non distraggano ma che aiutino a pregare, che puntino sul mistero aiutando l’uomo non a capirlo ma ad adorarlo con amore”.

“E tu – gli domando – ne hai già fatte di chiese come vorresti?”. “Proprio del tutto no: mi risponde – perché ho sempre avuto, finora, a che fare con ambienti prestabiliti, che ho accettato com’erano, potendo solo applicarvi e sperimentarvi il massimo dei miei punti di vista. Questo è avvenuto nella cappella e nella cripta del Seminario di Mantova, nella Cappella dello studio francescano di Varese, nella Chiesa di Pioltello, presso Milano, nella chiesa dell’Aeroporto di Linate. Non mi è stata ancora offerta la grande occasione di una chiesa tutta per me. Se davvero mi verrà affidata la cappella del nuovo Seminario Regionale di Bologna, penso che sarà per me un esperimento molto interessante. Soprattutto poi mi troverò a mio agio nelle opere che mi sono state affidate nella nuova grande chiesa che sta per sorgere a Milano in omaggio a Paolo VI: dovrei fare le porte, il pulpito, l’altare, il crocifisso, le suppellettili, le vetrate”. “Come mai ti sei deciso ad affrontare il problema nel suo complesso?”. “Francamente perché ero stanco, ed umiliato, di sentire miei ottimi amici dirmi che essendo entrati in certe chiese, avevano deciso di andare, d’ora in avanti, a pregare nei boschi o in riva al fiume. Certi miei amici, specialmente fra gli artisti, potranno essere incontentabili, ma è purtroppo vero che certe nostre chiese, vecchie o nuove, sono invarcabili, inguardabili, insopportabili. Inutilmente ricche, assurdamente false, totalmente capaci di scoraggiare chi cerca davvero Dio, sono un’educazione quotidiana al cattivo gusto, prima di tutto al cattivo gusto religioso. E peggio che mai se certi fedeli vi si trovano bene: vuol dire che il concetto che hanno di Dio si è già deformato. Credo che sia gente che, senza rendersene conto, dà del ‘Lei’ a Dio. Non serve a nulla studiare un altare nuovo, o fare dei bei candelieri, o osare un crocifisso davvero moderno, e magari inserire tutte queste cose in mezzo a tutte le altre assai brutte. Occorre affrontare intero e complesso il problema dell’arte sacra, accettare gli errori che si sono fatti, e farne motivi di umiltà davanti al mistero della fede e dell’arte. Prima che Chiesa e arte si possano completamente riconciliare, come ha auspicato Paolo VI il 7 maggio scorso nella Cappella Sistina, occorrerà che tanto gli uomini di chiesa che gli artisti espiino insieme i loro peccati di pigrizia, di cattivo gusto, di ipocrisia, forse anche di mancanza di fede. Uomini come Figini in architettura, come Minguzzi in scultura, come Manzù, come tanti altri, possono riaprire il discorso dell’arte, ma noi di chiesa dobbiamo preparare loro ambienti, locali, climi adatti a non farli tornare indietro”.

“Come riassumeresti l’arte sacra nuova?”. “Soprattutto come un ritorno alle Catacombe, con in più la luce. L’arte cristiana delle Catacombe è essenziale, ma non rozza: è la più raffinata, se si vuole, che esista. Molta dell’arte moderna più coraggiosa, si rifà alle Catacombe anche se non lo sa. Noi dovremmo imparare proprio a rendere semplice il mistero, adorabile l’ineffabile, aggiungendovi tutta la luce di cui siamo capaci. Le materie dall’arte catacombale tipiche dell’architettura del nostro tempo, come il cemento, il vetro, il ferro, consentono i giochi più arditi e legittimi per esprimere l’inesprimibile. Io l’ho scoperto con fatica, ma sono stato compensato di tutto. Nelle grandi vetrate che ho fatto a Mantova, a Varese, a Pioltello (intere pareti) non ho creato nemmeno una figura. Ma mi hanno detto tutti che si tratta di colori, di luce, di combinazioni liriche che aiutano a pregare. Ho trovato uomini fiduciosi ed intelligenti che si sono fidati di me, e questo mi ha aiutato più di ogni altra cosa. Il Vescovo di Mantova mi ha detto che le mie cose ‘stanno su’, che cioè aiutano a pregare, hanno una funzione stimolante e veramente liturgica. Ho montato con queste mani tonnellate e tonnellate di cristalli colorati, che sono andato personalmente a scegliere a Murano, davanti alle colate quotidiane. Non potevo avere consolazioni più grandi. Penso che anche senza tornare alle classiche figure, basta oggi la luce ad aiutare la nostra preghiera”.

“Questa della luce è uno dei moduli più appassionati dell’arte di Padre Ruggeri. Ha studiato nelle Catacombe la simbologia del cristianesimo neonato, ma l’ha subito applicata ad un trionfo di luce e di colori. Ha portato nei punti più luminosi del creato le conclusioni tratte nelle tenebre sacre delle Catacombe. Lui vorrebbe addirittura che l’altare fosse sullo sfondo di un vero paesaggio, tutto contemplato attraverso immensi vetri; sarebbe anche una prova per vedere se distrae o se aiuta. Ma vorrebbe rischiare. Per quanto lo riguarda, finora Padre Ruggeri ha fatto tutto da solo, tutto con le sue mani. Ha montato immensi telai di ferro, impastato quintali e quintali di cemento, modulato tonnellate di cristalli. Per altare non cerca combinazioni di marmi preziosi; sceglie piuttosto una roccia vera, non la squadra che appena, e poi la colloca al suo posto: non dev’essere infatti solo il simbolo del Calvario, la roccia nuda su cui il Signore s’è immolato? Altari senza tabernacolo, perché l’altare è l’ara del sacrificio, non il luogo della conservazione. È assurdo, per Padre Costantino, che, mentre si rinnova misticamente il Sacrificio di Cristo, Cristo sia già presente sacramentalmente sullo stesso altare. Così per il segno della croce. Padre Ruggeri vuole in un tempio una sola croce, grande, bella, eloquente, a cui faccia capo, com’è giusto, tutta la liturgia sacrificale della Chiesa. Basta con le crocette disseminate ovunque, sui muri, per terra, sui paramenti e sulle suppellettili, come se si dovesse curare l’inflazione del segno sacro. Non occorre benedire ciò che è benedetto, consacrare ciò che è già consacrato. Anche per la Via Crucis Padre Ruggeri la concepisce come itinerario preparatorio al sacrificio dell’altare, e la fa cominciare possibilmente fuori della chiesa, mentre la stazione della morte di Cristo in croce coincide con lo stesso altare. In una chiesa l’ha eseguita letteralmente per terra, davvero come una “strada”, sotto i piedi dei fedeli”.

“A quale criterio riferisci tutta questa tua necessità di semplificazioni?”. “Al mistero, alla virtù, al problema della povertà. Nemmeno l’arte sacra può oggi fare a meno di fare i conti con la povertà. Se è vero, come il Concilio ricorda, che la nostra Chiesa ‘è soprattutto la Chiesa dei poveri’, cominciamo a semplificare tutto nella povertà. Tutto diventerà più credibile, più sacro, più vero. Tutti i segni saranno più efficaci, le materie più trasparenti, i significati più immediati ed evidenti. Parlo specialmente delle chiese francescane, ma il discorso vale benissimo per tutte. E non si tratta solo di ragioni estetiche, ma anche spirituali. Il mistero di Dio non si deve presumere di esprimerlo col massimo della materia, soprattutto se preziosa, ma col minimo: mi sembra una legge elementare. E per dare forza a tutto questo, occorre tornare a credere alla povertà.

“In che senso?”. “Dando alle chiese il segno e la libertà della povertà. La chiesa di pietra può divenire un ostacolo alla ‘chiesa viva’ formata dalla comunità dei fedeli. Certe chiese moderne (chiese ‘alla moda’) possono compromettere ancora a lungo la penetrazione evangelica nella società contemporanea. Credo che i muri della chiesa debbano predicare essi stessi le beatitudini evangeliche: povertà, semplicità, purezza. Ad esempio, una chiesa ricca in un quartiere povero; vi può essere bestemmia più grave? Inevitabilmente, anche se non è stata costruita con quelle intenzioni, sembrerà la chiesa dei padroni. Certe chiese monumentali servono più la vanità degli uomini, la loro bramosia di potenza, la loro sete di denaro, che la gloria di Dio e la gioia dell’uomo. Non dovremmo dimenticare, almeno noi cristiani, che non è a caso che Dio ha scelto, nell’incarnazione, le realtà più umili, come sua carne, come sua dimora. I privilegi spirituali sono i più ridicoli, oltre che i più abominevoli. È abominevole che in certe periferie vi siano chiese ricchissime, mentre mancano le stesse case minime per i poveri. La casa di Dio deve essere ricca soprattutto di bellezza; nessun materiale prezioso può sostituire una bellezza che non c’è”.

“Non credi d’essere un utopista, a pensare e dire queste cose?”. “Credo di sì. Ma, se permetti, non diversamente, ad esempio, da come lo erano, nei primi secoli della Chiesa, san Basilio, san Girolamo, san Giovanni Crisostomo, che dissero le stesse cose. Io non mi vanto di inventarle, queste cose: le ripeto soltanto. Il ‘lusso’ della casa di Dio! Impariamo più ad onorarlo come desidera, che non come pensiamo che desideri. Vogliamo delle chiese povere e semplici, ma vive e vere; qui è la prova tanto per gli artisti che per i fedeli. Sfruttiamo soprattutto la luce, la grande conquista della nostra epoca”.

“Pensi di essere seguito?”. “E che cosa importa? Importa fare. Poi si hanno le conferme. Una, ad esempio, l’ho avuta quando ho visto le foto della luna scattate dal Ranger VII. Quei volumi, quelle ombre e quelle luci, io le avevo già trattate nelle pareti dei miei ultimi tabernacoli. Tu ne hai la prova da queste foto. Pensavo sempre ai ‘cieli nuovi’ dell’Apocalisse ed ecco la conferma. Non mi sembra senza significato. La chiesa deve avere d’altronde la sua funzionalità liturgica favorendo il colloquio e l’incontro fra Dio e l’uomo. E la povertà è la legge risanatrice che sola può liberare dall’inganno formale, e portare ogni cosa alla massima espressione e al massimo rendimento”.

E Padre Ruggeri se ne va. È di poche parole, ha parlato anche troppo. Ora riprende i suoi telai di ferro, i suoi cristalli allucinanti. Lo divora il bisogno di rendere sempre più efficace l’amicizia fra Dio e l’uomo, attraverso il mistero e il dono di un’arte che, per questo frate cocciuto, è ‘sacra’ solo se è sincera e povera, nelle intenzioni come nelle materie. C’è proprio da credere che se la ‘rivoluzione’ avverrà, nell’arte sacra italiana, una delle prime tappe sarà da considerare il convento francescano di Canepanova di Pavia, dove Padre Ruggeri ha portato prima lo scompiglio e poi lo stupore felice dei suoi stessi confratelli. Ciò che si scrive di lui ormai a raggio internazionale, ciò che lui stesso scrive spesso sulla rivista d’arte più coraggiosa d’Italia – Chiesa e quartiere -– induce a credere che, davvero, ‘questa rivoluzione s’ha da fare’.

1964
Il rivoluzionario dell’arte sacra

“Orizzonti”, n. 37, 18 ottobre 1964

Padre Costantino Ruggeri si sdegna violentemente davanti al pessimo gusto dilagante in molte chiese. Allora le sue mani da manovale cominciano a volteggiare per fare dell’arte come l’intende lui: un ritorno alle catacombe, più un trionfo di luce e di colori. I suoi confratelli lo chiamano ‘il frate informale’, ma con un’ironia molto affettuosa, tanto per nascondere un’ammirazione che in questi anni è andata sempre più crescendo. Partito dalla scuola di Mario Sironi, Padre Costantino Ruggeri, un giovane francescano di pelo rosso e d’occhi chiari, dalle mani callose e dagli entusiasmi tenaci, è andato progressivamente accantonando la pittura – in cui riconosce tuttavia la sua vera vocazione artistica – per dedicarsi al problema complessivo e totale dell’arte sacra in Italia.

Padre Ruggeri scrive poco, e fa molto. Crede soprattutto ai fatti. Come non l’hanno lusingato eccessivamente due fra i maggiori premi italiani di pittura – il San Fedele ed il Marzotto – presi nel 1954 – così non lo deprimono affatto i confratelli, i fedeli, i critici che continuano tuttora, anche se sono sempre meno, a stracciarsi le vesti davanti alle sue opere. Ciò che gli sta a cuore è soprattutto fare. Davanti ai fatti, tutti debbono accettare una realtà, almeno discuterla.

Non è che Padre Costantino non soffra di robuste e violente indignazioni. Certa paccottiglia cattolica, certo pessimo gusto dilagante nelle nostre nuove e vecchie chiese, lo gettano in preda al furore. Allora si sfoga, con violenza salutarmente iconoclasta, contro chi se lo merita. Ma la bufera dura sempre poco. Di colpo il frate bresciano (è nato ad Adro, presso Brescia, nel 1925) cambia discorso, fa volteggiare le belle mani da manovale, e comincia un’altra musica. “Non serve nemmeno polemizzare. L’importante è di concludere qualcosa. Il pessimo gusto, l’adulterazione dell’arte sacra, dei muri, delle stesse suppellettili sacre – mi dice – non possono essere smantellati se non con delle chiese nuove e belle. Pazienza le vecchie chiese brutte; sono irrimediabili. Ma con le nuove dovremmo partire bene, dovremmo approfittare dell’occasione, tanto tenendo conto dell’evoluzione che ha raggiunto la sensibilità complessa dell’uomo del nostro tempo che accettando come spinta preziosa le riforme liturgiche dettate dal Concilio. Il Signore, nell’Apocalisse, dice che esige e intende fare ‘nuovi cieli e nuove terre’: bisognerebbe collaborare, cominciando a fare chiese belle, case dell’uomo e di Dio nello stesso tempo, chiese che non distraggano ma che aiutino a pregare, che puntino sul mistero aiutando l’uomo non a capirlo ma ad adorarlo con amore”.

“E tu – gli domando – ne hai già fatte di chiese come vorresti?”. “Proprio del tutto no: mi risponde – perché ho sempre avuto, finora, a che fare con ambienti prestabiliti, che ho accettato com’erano, potendo solo applicarvi e sperimentarvi il massimo dei miei punti di vista. Questo è avvenuto nella cappella e nella cripta del Seminario di Mantova, nella Cappella dello studio francescano di Varese, nella Chiesa di Pioltello, presso Milano, nella chiesa dell’Aeroporto di Linate. Non mi è stata ancora offerta la grande occasione di una chiesa tutta per me. Se davvero mi verrà affidata la cappella del nuovo Seminario Regionale di Bologna, penso che sarà per me un esperimento molto interessante. Soprattutto poi mi troverò a mio agio nelle opere che mi sono state affidate nella nuova grande chiesa che sta per sorgere a Milano in omaggio a Paolo VI: dovrei fare le porte, il pulpito, l’altare, il crocifisso, le suppellettili, le vetrate”. “Come mai ti sei deciso ad affrontare il problema nel suo complesso?”. “Francamente perché ero stanco, ed umiliato, di sentire miei ottimi amici dirmi che essendo entrati in certe chiese, avevano deciso di andare, d’ora in avanti, a pregare nei boschi o in riva al fiume. Certi miei amici, specialmente fra gli artisti, potranno essere incontentabili, ma è purtroppo vero che certe nostre chiese, vecchie o nuove, sono invarcabili, inguardabili, insopportabili. Inutilmente ricche, assurdamente false, totalmente capaci di scoraggiare chi cerca davvero Dio, sono un’educazione quotidiana al cattivo gusto, prima di tutto al cattivo gusto religioso. E peggio che mai se certi fedeli vi si trovano bene: vuol dire che il concetto che hanno di Dio si è già deformato. Credo che sia gente che, senza rendersene conto, dà del ‘Lei’ a Dio. Non serve a nulla studiare un altare nuovo, o fare dei bei candelieri, o osare un crocifisso davvero moderno, e magari inserire tutte queste cose in mezzo a tutte le altre assai brutte. Occorre affrontare intero e complesso il problema dell’arte sacra, accettare gli errori che si sono fatti, e farne motivi di umiltà davanti al mistero della fede e dell’arte. Prima che Chiesa e arte si possano completamente riconciliare, come ha auspicato Paolo VI il 7 maggio scorso nella Cappella Sistina, occorrerà che tanto gli uomini di chiesa che gli artisti espiino insieme i loro peccati di pigrizia, di cattivo gusto, di ipocrisia, forse anche di mancanza di fede. Uomini come Figini in architettura, come Minguzzi in scultura, come Manzù, come tanti altri, possono riaprire il discorso dell’arte, ma noi di chiesa dobbiamo preparare loro ambienti, locali, climi adatti a non farli tornare indietro”.

“Come riassumeresti l’arte sacra nuova?”. “Soprattutto come un ritorno alle Catacombe, con in più la luce. L’arte cristiana delle Catacombe è essenziale, ma non rozza: è la più raffinata, se si vuole, che esista. Molta dell’arte moderna più coraggiosa, si rifà alle Catacombe anche se non lo sa. Noi dovremmo imparare proprio a rendere semplice il mistero, adorabile l’ineffabile, aggiungendovi tutta la luce di cui siamo capaci. Le materie dall’arte catacombale tipiche dell’architettura del nostro tempo, come il cemento, il vetro, il ferro, consentono i giochi più arditi e legittimi per esprimere l’inesprimibile. Io l’ho scoperto con fatica, ma sono stato compensato di tutto. Nelle grandi vetrate che ho fatto a Mantova, a Varese, a Pioltello (intere pareti) non ho creato nemmeno una figura. Ma mi hanno detto tutti che si tratta di colori, di luce, di combinazioni liriche che aiutano a pregare. Ho trovato uomini fiduciosi ed intelligenti che si sono fidati di me, e questo mi ha aiutato più di ogni altra cosa. Il Vescovo di Mantova mi ha detto che le mie cose ‘stanno su’, che cioè aiutano a pregare, hanno una funzione stimolante e veramente liturgica. Ho montato con queste mani tonnellate e tonnellate di cristalli colorati, che sono andato personalmente a scegliere a Murano, davanti alle colate quotidiane. Non potevo avere consolazioni più grandi. Penso che anche senza tornare alle classiche figure, basta oggi la luce ad aiutare la nostra preghiera”.

“Questa della luce è uno dei moduli più appassionati dell’arte di Padre Ruggeri. Ha studiato nelle Catacombe la simbologia del cristianesimo neonato, ma l’ha subito applicata ad un trionfo di luce e di colori. Ha portato nei punti più luminosi del creato le conclusioni tratte nelle tenebre sacre delle Catacombe. Lui vorrebbe addirittura che l’altare fosse sullo sfondo di un vero paesaggio, tutto contemplato attraverso immensi vetri; sarebbe anche una prova per vedere se distrae o se aiuta. Ma vorrebbe rischiare. Per quanto lo riguarda, finora Padre Ruggeri ha fatto tutto da solo, tutto con le sue mani. Ha montato immensi telai di ferro, impastato quintali e quintali di cemento, modulato tonnellate di cristalli. Per altare non cerca combinazioni di marmi preziosi; sceglie piuttosto una roccia vera, non la squadra che appena, e poi la colloca al suo posto: non dev’essere infatti solo il simbolo del Calvario, la roccia nuda su cui il Signore s’è immolato? Altari senza tabernacolo, perché l’altare è l’ara del sacrificio, non il luogo della conservazione. È assurdo, per Padre Costantino, che, mentre si rinnova misticamente il Sacrificio di Cristo, Cristo sia già presente sacramentalmente sullo stesso altare. Così per il segno della croce. Padre Ruggeri vuole in un tempio una sola croce, grande, bella, eloquente, a cui faccia capo, com’è giusto, tutta la liturgia sacrificale della Chiesa. Basta con le crocette disseminate ovunque, sui muri, per terra, sui paramenti e sulle suppellettili, come se si dovesse curare l’inflazione del segno sacro. Non occorre benedire ciò che è benedetto, consacrare ciò che è già consacrato. Anche per la Via Crucis Padre Ruggeri la concepisce come itinerario preparatorio al sacrificio dell’altare, e la fa cominciare possibilmente fuori della chiesa, mentre la stazione della morte di Cristo in croce coincide con lo stesso altare. In una chiesa l’ha eseguita letteralmente per terra, davvero come una “strada”, sotto i piedi dei fedeli”.

“A quale criterio riferisci tutta questa tua necessità di semplificazioni?”. “Al mistero, alla virtù, al problema della povertà. Nemmeno l’arte sacra può oggi fare a meno di fare i conti con la povertà. Se è vero, come il Concilio ricorda, che la nostra Chiesa ‘è soprattutto la Chiesa dei poveri’, cominciamo a semplificare tutto nella povertà. Tutto diventerà più credibile, più sacro, più vero. Tutti i segni saranno più efficaci, le materie più trasparenti, i significati più immediati ed evidenti. Parlo specialmente delle chiese francescane, ma il discorso vale benissimo per tutte. E non si tratta solo di ragioni estetiche, ma anche spirituali. Il mistero di Dio non si deve presumere di esprimerlo col massimo della materia, soprattutto se preziosa, ma col minimo: mi sembra una legge elementare. E per dare forza a tutto questo, occorre tornare a credere alla povertà.

“In che senso?”. “Dando alle chiese il segno e la libertà della povertà. La chiesa di pietra può divenire un ostacolo alla ‘chiesa viva’ formata dalla comunità dei fedeli. Certe chiese moderne (chiese ‘alla moda’) possono compromettere ancora a lungo la penetrazione evangelica nella società contemporanea. Credo che i muri della chiesa debbano predicare essi stessi le beatitudini evangeliche: povertà, semplicità, purezza. Ad esempio, una chiesa ricca in un quartiere povero; vi può essere bestemmia più grave? Inevitabilmente, anche se non è stata costruita con quelle intenzioni, sembrerà la chiesa dei padroni. Certe chiese monumentali servono più la vanità degli uomini, la loro bramosia di potenza, la loro sete di denaro, che la gloria di Dio e la gioia dell’uomo. Non dovremmo dimenticare, almeno noi cristiani, che non è a caso che Dio ha scelto, nell’incarnazione, le realtà più umili, come sua carne, come sua dimora. I privilegi spirituali sono i più ridicoli, oltre che i più abominevoli. È abominevole che in certe periferie vi siano chiese ricchissime, mentre mancano le stesse case minime per i poveri. La casa di Dio deve essere ricca soprattutto di bellezza; nessun materiale prezioso può sostituire una bellezza che non c’è”.

“Non credi d’essere un utopista, a pensare e dire queste cose?”. “Credo di sì. Ma, se permetti, non diversamente, ad esempio, da come lo erano, nei primi secoli della Chiesa, san Basilio, san Girolamo, san Giovanni Crisostomo, che dissero le stesse cose. Io non mi vanto di inventarle, queste cose: le ripeto soltanto. Il ‘lusso’ della casa di Dio! Impariamo più ad onorarlo come desidera, che non come pensiamo che desideri. Vogliamo delle chiese povere e semplici, ma vive e vere; qui è la prova tanto per gli artisti che per i fedeli. Sfruttiamo soprattutto la luce, la grande conquista della nostra epoca”.

“Pensi di essere seguito?”. “E che cosa importa? Importa fare. Poi si hanno le conferme. Una, ad esempio, l’ho avuta quando ho visto le foto della luna scattate dal Ranger VII. Quei volumi, quelle ombre e quelle luci, io le avevo già trattate nelle pareti dei miei ultimi tabernacoli. Tu ne hai la prova da queste foto. Pensavo sempre ai ‘cieli nuovi’ dell’Apocalisse ed ecco la conferma. Non mi sembra senza significato. La chiesa deve avere d’altronde la sua funzionalità liturgica favorendo il colloquio e l’incontro fra Dio e l’uomo. E la povertà è la legge risanatrice che sola può liberare dall’inganno formale, e portare ogni cosa alla massima espressione e al massimo rendimento”.

E Padre Ruggeri se ne va. È di poche parole, ha parlato anche troppo. Ora riprende i suoi telai di ferro, i suoi cristalli allucinanti. Lo divora il bisogno di rendere sempre più efficace l’amicizia fra Dio e l’uomo, attraverso il mistero e il dono di un’arte che, per questo frate cocciuto, è ‘sacra’ solo se è sincera e povera, nelle intenzioni come nelle materie. C’è proprio da credere che se la ‘rivoluzione’ avverrà, nell’arte sacra italiana, una delle prime tappe sarà da considerare il convento francescano di Canepanova di Pavia, dove Padre Ruggeri ha portato prima lo scompiglio e poi lo stupore felice dei suoi stessi confratelli. Ciò che si scrive di lui ormai a raggio internazionale, ciò che lui stesso scrive spesso sulla rivista d’arte più coraggiosa d’Italia – Chiesa e quartiere -– induce a credere che, davvero, ‘questa rivoluzione s’ha da fare’.

Padre Costantino nella sua cella del convento di Canepanova, Pavia

Incontri, volti, esperienze

Luigi Leoni

Un tratto peculiare di padre Costantino era la gioia nel tessere rapporti di amicizia e condividere esaltanti esperienze artistiche. Come san Francesco d’Assisi visse in comunione con i fratelli, così padre Costantino, quando si decise per un cammino di evangelizzazione attraverso l’arte, amò circondarsi di uomini che, condividendo le sue aspirazioni, si cimentassero con lui nello stesso impegno. Non disdegnava alcun legame, si coinvolgeva anzi con uomini e donne delle più diverse estrazioni sociali e culturali, pur di costruire percorsi di dialogo, realizzare fraternità d’elezione e far maturare l’indirizzo artistico e di fede intravisto. Nel dopoguerra, trovandosi a Milano nel fervore di un generale risveglio di speranze, egli frequentò studi di pittori, scultori e architetti, che gli indicavano, con le loro opere, una direzione dell’arte moderna rispondente anche ad alti valori dello spirito: Mario Sironi, Luciano Minguzzi, Giorgio Morandi, Lucio Fontana, Carlo Carrà, Roberto Crippa, Luigi Figini e Gino Pollini, Filippo De Pisis, Arturo Tosi, Marino Marini, Bruno Cassinari, Giorgio de Chirico, Emanuele Cappello, Sergio Dangelo, Ottone Rosai. Ogni forma d’arte lo affascinava; era attratto anche dalla musica e dalla poesia: fu amico di Salvatore Quasimodo e di Eugenio Montale. Un’attenzione particolare riservò ai giovani. Dopo l’esperienza negli oratori di Milano negli anni Cinquanta, nel convento di Canepanova a Pavia, a partire dagli anni Sessanta avviò, con il gruppo dei ministranti per il servizio liturgico, un percorso che fosse per loro di crescita, impegnandoli anche nella modellazione della creta, nella preparazione di modelli in gesso, nella costruzione di plastici in legno e cartone, nell’esecuzione di ceramiche. Costituì nella veranda storica del convento, un tempo casa nobiliare quattrocentesca costruita su fondazioni medievali, un laboratorio d’arte, fucina di opere che prendevano vita sotto la sua regia sapiente. Allo scopo gli fu necessario entrare in contatto anche con ditte e figure esterne al convento: per le opere in bronzo ebbe rapporti con la fonderia De Andreis di Quinto de’ Stampi (Milano); per le finiture della suppellettile sacra coi fratelli Aldo e Leopoldo Giampieri di Roma. In Pavia frequentava anche vari laboratori di falegnami, di fabbri, di artigiani per realizzare le opere in legno, in ferro e in acciaio, come Gambuzzi, Camillo Fraschetti, Vincenzo Mangiarotti, Rino Roveda. Gli giovò in città la frequentazione di gente semplice e famigliare, che gli faceva rivivere il fascino mai dimenticato del paese natale di Adro e della vita nei paesaggi della Franciacorta, prossimi al lago d’Iseo. Conservò soprattutto un forte legame con la madre Rosina e il padre Angelo. Nella casa dove era nato veniva tenuta a sua disposizione una stanza così che, quando gli era possibile, potesse soggiornare presso i suoi. Nella casa dei genitori abitava anche il fratello Luigi con la moglie e le figlie. Tra loro egli ritrovava il calore domestico lasciato quando, ancora bambino, decise di entrare in convento. Tuttora in quella dimora sono conservati vari suoi quadri e un affresco.

Il padre con l’amico architetto e i collaboratori dell’atelier: Luigi Leoni; Massimo Ravazzano; Carmen Romagnano; Chiara Rovati; Andrea Vaccari; Ignazio Breccia Fratadocchi

Ebbe amici Lina e Giordano Ercolessi che, conosciuti tramite padre Nazareno Fabbretti e padre Davide Maria Turoldo, possedevano un bel negozio di penne stilografiche a lato del duomo di Milano. Avendo in cuore di ritirarsi in un luogo di pace, chiesero al padre il progetto per la loro casa tra gli ulivi della Toscana. A Barolo, in località Vergne, tra i vigneti delle Langhe, Milena e Aldo Vaira gli chiesero la realizzazione di vetrate per la loro cantina; gli si affezionarono al punto da affidargli successivamente anche il progetto per l’ampliamento della loro azienda agricola. A Torino gli fu cara l’amicizia con Ernesto Olivero, che lo chiamò per la realizzazione della cappella nel Sermig, l’Arsenale della pace da lui trasformato, da fucina per la fabbricazione di armi, in luogo di accoglienza aperto a tutti. Don Lorenzo Tous gli manifestò la propria ammirata devozione nel chiamarlo a progettare la cappella iemale della cattedrale di Palma di Maiorca e, successivamente, una chiesa a C’an Picafort, nella stessa isola. A Pavia il frate artista visse anche momenti forti di interiorità. Su una parete del suo studio sopra il coro della chiesa, negli anni Novanta segnò questa frase: “beata solitudo”. Visse momenti di intensa riflessione nel proprio atelier d’artista che, nel tempo, ampliò con altri spazi: i locali cantinati, dove si custodivano in deposito le lastre di vetro antico soffiato; i vani quattrocenteschi al primo piano, dove si svolgeva l’attività artistica; ancora più in alto nell’ex granaio del convento, il suo studio personale esteso fino ai sottotetti. Fu coinvolto per interventi in santuari, conventi, monasteri, quali, ad esempio: il Deserto di Varazze dei Carmelitani, il monastero di Clarisse a Chiavari, il Santuario della Verna, il monastero delle Carmelitane a La Spezia, il convento francescano San Romolo di Figline Valdarno, il convento francescano della Brunella a Varese. In molte parrocchie italiane fummo chiamati per erigere più di trenta chiese nuove e numerosi arredi o adeguamenti liturgici di presbiteri.

Ogni situazione era occasione per lui di testimonianze fraterne, di messaggi forti non disgiunti dall’esperienza lavorativa anzi avvalorante, per il fascino delle sollecitazioni che egli riusciva a stimolare durante le fasi di progettazione e realizzazione delle opere. Lo scambio – di valutazioni, visioni e prospettive – non era interrotto neppure nei momenti conviviali, sempre ricchi di amabili e sapienti colloqui. Quando affrontava un tema a lui caro, anche grazie alla sua voce calda e convincente, tutti si facevano attenti. Era una grazia condividere queste esperienze umane e professionali. In modo prodigioso e inaspettato emerse nel tempo la possibilità di viaggi in ogni continente, segnati da incontri sempre diversi e da un interminabile susseguirsi di occasioni, eventi, avventure per la costruzione di nuove chiese e di cicli di vetrate artistiche. Il clima sorprendente nel quale le abbiamo vissute merita di essere qui brevemente richiamato per alcune occasioni: a Roma, in Africa, in Giappone, in Terrasanta. Fu un miracolo quanto accadde dopo che egli era stato chiamato a tenere una conferenza sul Beato Angelico a Roma, con la quale incantò gli uditori. Convinse, tra i presenti, don Gianfranco Mori, sacerdote della parrocchia romana di San Bernardo di Chiaravalle, che gli affidò l’incarico di edificare un nuovo complesso parrocchiale nel quartiere di Centocelle. A costruzione conclusa e dopo la sua consacrazione, la chiesa venne visitata da san Giovanni Paolo II che, incontrando il padre, commentò: “Nel Medioevo l’uomo costruiva grandi cattedrali in altezza per elevarsi al cielo; le chiese contemporanee parlano di un Dio che è sceso sulla terra”. Roma ci riservò di lì a poco una sorpresa ancora più grande. Nella commissione d’arte sacra del Vicariato di Roma che aveva approvato il progetto per Centocelle, un suo membro, l’ingegner Ignazio Breccia Fratadocchi, ne colse la bellezza. Fu lui a sollecitare don Pasquale Silla, rettore del santuario del Divino Amore sull’Ardeatina, a chiamare padre Costantino per la realizzazione di un nuovo santuario. Don Pasquale accettò il consiglio. Era l’anno mariano 1987 ed erano trascorsi più di quarant’anni da quando, nel 1945, i cittadini romani avevano fatto voto alla Madonna di costruire un nuovo grande santuario per la salvezza di Roma. Abbandonate le idee monumentali dei precedenti progettisti, il padre immaginò una casa di campagna per la Madonna, nella valle al di fuori delle mura contornata dalle morbide movenze dei colli. Lì egli vide il nuovo santuario che subito ci apprestammo a modellare in plastilina. Suor Rosaria, che prestava servizio nella casa del pellegrino, dove eravamo ospitati quando io stendevo i disegni su lucido, una mattina mi riferì che don Umberto Terenzi, sacerdote fondatore della sua Congregazione, in sogno le aveva confermato l’opportunità della scelta del luogo. In realtà l’area individuata, essendo agro romano, non era edificabile secondo il piano regolatore vigente; ci parve dunque di esserci impegnati in un’impresa inattuabile. Tuttavia, ancora una volta, quando il padre fu chiamato a tenere, insieme a don Silla, una conferenza all’Università Gregoriana, fu molto convincente nel tratteggiare il progetto. Colpì nel segno e ottenne il proprio scopo quando disse: “Fuori dalla torre del primo miracolo, verso valle, sollevo una zolla di terra e al di sotto ricavo una grotta azzurra”. Ne avemmo conferma quando, il 2 novembre 1987, ci recammo dall’assessore all’urbanistica del Comune di Roma che ci accolse con l’augurio: “Benvenuti! Quando ero bambino mia nonna mi conduceva al santuario del Divino Amore”. L’omaggio a Maria, nella conferenza del padre, aveva colpito lui e mobilitò tutto l’ufficio che, entro la mattina, trovò la soluzione per consentire la realizzazione del nostro progetto in deroga al piano regolatore vigente. Entro il 31 dicembre dello stesso anno arrivò infatti l’approvazione comunale. Intensa, per le persone incontrate, è stata anche l’esperienza africana. I frati minori della regione ligure avevano aperto nel 1970 una nuova missione in Burundi. A Kayongozi, a duecento chilometri dalla capitale Bujumbura, essi avevano appena costruito un convento al quale mancava la chiesa. Nel 1979 chiesero a padre Costantino la disponibilità a intraprendere un viaggio per valutarne la realizzazione. La salute del padre non era molto buona, ma egli accettò l’invito. Nella diocesi di Ruyigi conobbe il vescovo Ruhuna, che lo invitò a percorrere tutta la diocesi per avere consigli utili al proprio ministero. Anch’io lo conobbi, quando venne a Kayongozi per una visita pastorale, e ne apprezzai la bontà d’animo e il coraggio evangelico. Ne sarebbe stato eroico testimone di lì a poco, divenendo martire nelle lotte tribali. Indimenticabile fu l’incontro con il Giappone, dove ripercorremmo l’epopea di evangelizzazione che, come vento impetuoso, avevano vissuto nel XVI secolo i primi compagni di sant’Ignazio di Loyola.

Il padre con gli amici del mondo dell’arte e di quello ecclesiastico: Lucio Fontana; Guido Ballo; Gianfranco Ravasi; Davide Maria Turoldo; Cesare Angelini; Luigi Figini

A Yamaguchi, città a sud della grande isola di Honshu, megalopoli famosa per aver dato i natali a eminenti figure della politica e della cultura nazionale, san Francesco Saverio aveva posto le basi di una comunità cristiana, con l’ardore di san Paolo nei primi decenni dopo Cristo. Cinquecento anni dopo l’evangelizzazione gesuitica, trovammo qui la più fiorente comunità cattolica di tutta la nazione nipponica. Vi aveva svettato a lungo, sulla cima del colle sovrastante la città, un santuario con due torri che, come fari di luce, annunciavano Cristo risorto. Un grande incendio, all’inizio degli anni Novanta, aveva distrutto tutta la costruzione in legno. Superiore del convento di Yamaguchi, ormai privo della chiesa, era il missionario gesuita padre Domenico Vitali. Essendo venuto a Milano per chiedere ai confratelli del Centro culturale San Fedele nominativi di progettisti adeguati, gli venne suggerito di incontrare fra Costantino, loro amico e ottimo artista e architetto. L’ultimo dono per noi fu la possibilità di operare in Terrasanta, terra ove san Francesco, al tempo delle crociate, incontrò il Saladino. Ci capitò di essere lì immersi nel dramma di una terra sempre contesa tra popoli, spettatori di azioni di guerra al tempo dell’Intifada. Nella Custodia di Terrasanta incontrammo i figli di san Francesco chiamati da ogni parte del mondo a essere rappresentanti di ogni popolo cristiano, grande famiglia che da otto secoli tiene viva lì la fede dei cristiani.

A Betlemme fummo ospiti di una comunità conventuale formata da frati giovani che si preparavano al sacerdozio. Nel refettorio potevamo vedere i loro volti, gioiosi e aperti alla speranza, accanto a quelli dei frati anziani ricchi di esperienza: ci facevano respirare aria di purezza e di amore in un mondo lacerato da odi e contrasti. Allora, all’inizio del secondo millennio, padre Costantino gioiva con noi ma, carico d’anni, iniziava anche a denunciare fatica nei viaggi. Con Chiara Rovati, come me architetto, svolsi qui numerosi sopralluoghi necessari per eseguire una nuova cappella dedicata alla Madre di Dio e per restaurare la Grotta della Madonna del latte, che inaugurammo con il custode di Terrasanta, padre Pierbattista Pizzaballa. Si erano intensificati anche i rapporti con i padri del convento di San Salvatore e della Flagellazione di Gerusalemme, presso lo Studium Biblicum. Alla Via Dolorosa ci incontravamo spesso con padre Michele Piccirillo, il celebre frate archeologo che ci affidò vari progetti in Israele, Giordania e Siria, dei quali discutevamo con padre Costantino.

Ricordo infine che, se già in anni giovanili egli aveva condotto importanti viaggi per conoscere direttamente opere d’arte e di architettura contemporanee in uno dei quali incontrò personalmente Le Corbusier, in Pavia, grazie all’istituzione del Premio Internazionale Frate Sole, egli riuscì a portare i più celebri architetti costruttori di chiese cristiane, come Tadao Ando, A´lvaro Siza, Richard Meier. Nel dare l’estremo saluto a padre Costantino, per il quale composi il 25 giugno 2007 un testo in ricordo del cammino percorso insieme, mi fu chiaro come esso fosse stato tracciato dallo Spirito Santo, in un crescendo di prodigiose tappe.

Il padre con architetti e amici-committenti:
Le Corbusier; Tadao Ando; Vittorio Moretti; Famiglia Vaira; Coniugi Ercolessi; Ernesto Olivero

Il terzo occhio di un artista eclettico e poliedrico

Roberta Manara

Il decimo anniversario dalla morte di padre Costantino Ruggeri è stata l’occasione, per la Fondazione Frate Sole, di poterlo ricordare con una mostra per così dire ‘ibrida’ che documentasse sia l’amore tributato a Pavia, sia la passione per l’arte fotografica. Pavia ieri si sarebbe dovuta intitolare la mostra che il frate-artista aveva in animo di inaugurare negli spazi espositivi del castello visconteo, da maggio a luglio 1984, alla quale stava lavorando da oltre un anno raccogliendo materiale iconografico eterogeneo e che, per motivi sconosciuti, non riuscì a realizzare. Per concretizzare questo ambizioso progetto espositivo di rilettura iconografica della città, l’amico fraterno Guglielmo Chiolini gli aveva fatto dono di un corpus di 200 positivi in bianco e nero di grande formato (24 × 30 cm), della cosiddetta ‘Vecchia Pavia’, scatti suoi e di altri fotografi (Tollini, Nazzari, Valli, Moisello, Trentani…), a partire dalla fine dell’Ottocento, di quella città che non esiste più, immagini che Costantino riteneva impressionanti per una loro dolcezza, quasi fossero evocate da sogni. Il frate, che aveva sottolineato in più occasioni il suo debito d’ispirazione a Pavia, città d’adozione, disse al confratello Fabbretti:

La città si rivelò subito perfettamente congeniale al mio sentimento e al mio temperamento. Si faceva ascoltare, guardare, sognare. Pavia tu non puoi attraversarla di corsa. […] Pavia t’incanta sempre e in tutti i suoi spazi d’ombre e di luce, di storia e di gente viva, sui pinnacoli rossi delle sue torri, e sulle guglie delle sue chiese. Incanta in terra e sottoterra; sì, anche nelle cripte e nelle cantine. […] Non a caso ho costruito il mio studio in una soffitta-granaio, luminosa e barbara, dove maschere e travi, gerani e uccelli s’affacciano sui vicoli e sui tetti, sostano e se ne vanno1.

L’intento della mostra che voleva realizzare non era solo di gratitudine nei confronti di una città che lo aveva calorosamente accolto, ma anche di consegna alle generazioni future, attraverso testimonianze artistiche e documentarie uniche, di una memoria tangibile di questo straordinario passato. Il felice ritrovamento del corpus di immagini della ‘Vecchia Pavia’ (in occasione di un riordino dell’archivio della Fondazione) ha suggerito lo spunto per la mostra Era Pavia nel cuore di fra Costantino, Guglielmo Chiolini, Mino Milani2 che, allestita nel 2017 nella prestigiosa cornice comunale del Broletto “Spazio Immagine Design Rossana Bossaglia”, si è sviluppata su due binari paralleli: la volontà di concretizzare i desiderata del frate francescano nel decennale della morte, ma anche di mostrare, attraverso la selezione di suoi scatti inediti, un ulteriore aspetto di questa eclettica, volitiva e poliedrica personalità, ovvero la sua passione per la fotografia, arte che praticò in prima persona, raggiungendo risultati straordinari, dagli anni Sessanta del Novecento. Così, inarrestabile, egli affrontò una nuova avventura e ancora una volta mise in pratica il suo pensiero:

Il mondo ha bisogno di riaccendersi, come l’aurora, come la primavera. Ma per riaccendersi e rifiorire ha bisogno di bellezza, di fantasia, di creatività […] La vera fedeltà al passato, alla società, alla Chiesa, all’Ordine, sta nella libertà di rinnovarsi continuamente3.

È parso metodologicamente corretto, nell’affrontare la ricognizione iconografica di Pavia, partire da un nucleo storicamente definito (reperibile in Fondazione e, nella sua completezza, nell’Archivio Storico G. Chiolini), all’interno del quale sono state selezionate immagini meno note del tessuto urbano, di periodi storici differenti, con un percorso espositivo che ha preso le mosse, secondo la volontà di Costantino, da una veduta d’assieme della città dal Borgo Ticino, proseguendo lungo la circonvallazione interna, lambita a sud dal fiume, con le porte e i baluardi che a breve sarebbero stati abbattuti, per concludersi nei pittoreschi vicoli dell’antico centro storico. La possibilità di accostare, ai positivi in bianco e nero dello Studio Chiolini, quelli a colori di Costantino è sembrata una felice e stimolante combinazione per avvicinarsi alla città con un occhio insolito, dove il valore aggiunto era rappresentato dagli scritti dell’amico comune, noto storico e scrittore pavese Mino Milani. Questo “scrittore d’oggi”, che Gianni Rodari riteneva capace di “narrare per immagini” evocando il ritmo delle azioni, è l’espressione concreta di un grande attaccamento alla città in cui è nato, dalla quale non ha mai voluto andarsene, e nella quale ha ambientato numerosi suoi racconti.

Ci ha aiutato, in questo percorso per immagini, la parola sempre lucida e arguta del grande maestro pavese, la cui sensibilità letteraria si integra perfettamente con quella artistica dei due fotografi – che riconosce in padre Costatino un artista che, andando persino oltre la propria arte e i propri progetti, riusciva a esprimere insieme concretezza e sogno, restando coerente con tale sintesi fino alla fine. Vi era in questo talento, una grandezza, una sintonia ineguagliabile del padre francescano con Pavia. La mostra non ha voluto proporre una lettura nostalgica e malinconica della città, né un raffronto tra ieri e oggi, quanto piuttosto riallacciare idealmente un dialogo fra tre grandi maestri e la loro Pavia. Il topos è stato la ‘pavesità’, il filo conduttore l’amore devoto e incondizionato per Pavia, da parte di tre indiscusse personalità locali, legate tra loro da un rapporto d’amicizia unico e da affinità elettive: Guglielmo Chiolini, padre Ruggeri e Mino Milani, tre voci armoniche e complementari che hanno contribuito, ciascuno in modo personale e specifico, a cantare e valorizzare Pavia, ricercando e consolidando il concetto del bello. Costantino, in particolare, era convinto che la bellezza, così centrale nella sua vita, fosse uno strumento comunicativo in grado di parlare un linguaggio universale nel tempo e nello spazio e, citando Dostoevskij, capace di salvare il mondo. Personalità tenace nello studio e nella ricerca, amante del bello e del sublime, egli ha sempre cercato di circondarsi di nuovi stimoli, mai pago dei risultati raggiunti, instancabilmente aperto a cogliere tutte le ricchezze non ancora esplorate del sapere. Come sembrano indicare le oltre 600 diapositive a colori, dedicate dal frate-artista alla sola Pavia (a 10.000 scatti ammonta l’intera raccolta), che permettono di arricchire e integrare la sua variegata e proficua produzione artistica, precisando ulteriormente le tappe della sua ricerca tecnica ed espressiva lontana dagli schemi tradizionali, dagli stereotipi e dalle imposizioni del mercato dell’arte. Se in alcuni scatti fotografici egli propose una rilettura iconografica dei medesimi luoghi indagati dall’amico Chiolini, in altri il suo sguardo curioso si concentrò sul particolare, sul dettaglio ‘stravagante’, sull’objet redécouvert, sull’animale indifeso, fosse esso un cane, un uccellino o un gatto, spesso mimetizzati nello scatto. L’attenzione era rivolta a scorci nascosti, angoli pittoreschi, atmosfere quasi oniriche ripresi nelle diverse ore del giorno e con condizioni metereologiche differenti: nebbia, pioggia, neve, alba, crepuscolo, imbrunire, sera, notte. Ma anche a tetti, comignoli, panni stesi, paramenti murari, intonaci, marmi, laterizi, pavimenti, acciottolati, inferriate, portoni, vecchie scale, nature morte, il fiume, le torri, i panorami, le vecchie mura, angoli noti e nascosti, oggetti riconoscibili e non, antiche memorie. Padre Costantino anche in fotografia non rinunciò alla personalissima cifra stilistica. Amò immagini che esibiscono un taglio non banale, con angolazioni insolite; predilesse le geometrie, ma non le simmetrie, le vedute dall’alto, le inquadrature sempre molto studiate; in esse il manufatto artisticamente più rilevante non primeggia frontalmente, ma fa da corredo; anzi spesso in primo piano viene dato ampio spazio al buio, all’oscurità. Prevalente e onnipresente il nero o, meglio, la tenebra, contrapposta all’antico rosso dei mattoni, tipicamente pavesi. Frequentemente tra lui e il soggetto fotografato egli interpose una sorta di diaframma: una grata, un arco, un filo spinato, un’ombra, una muratura, una fronda fitomorfa … che sembrano sfumare e far perdere consistenza al soggetto ‘reale’ relegato in secondo piano. Suggestivi gli scatti dedicati ai vicoli, stretti e acciottolati, dalla solarità intensa, che sottolineano l’affinità di interessi e d’intenti con l’amico Chiolini il quale, come lui, non fotografava sovente l’elemento umano, presente solo in pochissimi scatti, ma rivolgeva prevalentemente l’attenzione all’oggetto artistico in sé. Sono immagini riflessive, accattivanti e spesso misteriose nelle quali traspare la sensibilità, non comune, di Costantino che sognava a occhi aperti e vedeva atmosfere e spazi sempre nuovi. Nei suoi scatti, che si caratterizzano per la lirica personalissima e per un’idea del mondo derivata dal Cantico delle Creature, c’è la Pavia del cuore e dell’anima.

Padre Costatino nello studio del convento di Canepanova a Pavia; vista dello studio dall’esterno; il padre nel giardinetto dello studio; al lavoro nella cellaatelier; nel laboratorio vetrate

1 C. Ruggeri, in N. Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore. Genesi di un artista cristiano, Dies, Milano 2001, II ed., pp. 62-63.
2 Era Pavia nel cuore di fra Costantino, Guglielmo Chiolini, Mino Milani, a cura di R. Manara, catalogo della mostra (Pavia, Broletto, Spazio Immagine Design “Rossana Bossaglia”, 15 dicembre 28 gennaio), Pavia 2017.
3 Ivi, p. 34.

Arte e architettura africana, “ricchezza e festa nuova per tutta la famiglia umana”

Arte e architettura africana, “ricchezza e festa nuova per tutta la famiglia umana”1
Ferdinando Zanzottera

Il rapporto tra padre Costantino Ruggeri e l’arte africana è una realtà complessa che lo coinvolse nella sua interezza di artista, sacerdote, uomo di cultura e “missionario con le pietre e i mattoni”. Il suo primo impatto, certamente in gioventù, non avvenne in modo diretto ma attraverso la conoscenza e lo studio delle avanguardie artistiche europee, che guardavano alla naturalezza e alle sintesi formali dell’arte africana per giungere a un rinnovamento del linguaggio.

Nota è la sua passione per molti esponenti delle avanguardie, numerose sono le pubblicazioni a essi dedicate che nel tempo hanno trovato spazio nella sua biblioteca personale. Con curiosità osservava i tentativi di sottolineare gli aspetti emozionali, a discapito della narrazione descrittiva della realtà così come appariva, caratterizzanti l’espressionismo, e quelli di scindere la forma artistica dagli aspetti del mondo naturale dell’astrattismo, prediligendo un’espressività non geometrica che valorizzava soggettività e spontaneità del gesto creativo. Quest’interesse rimase costante lungo tutta la sua carriera e lo portò ad approfondire le scelte di numerosi artisti, tra i quali Matisse e Kandinskij, oltre che degli espressionisti astratti, degli informali e dei pittori fauves, tra i primi a interessarsi significativamente all’arte africana. È dunque evidente che la passione del frate di origine bresciana per l’arte del continente nero sia debitrice a questi artisti, dei quali apprezzava anche la grande capacità di sintesi evocativa del segno grafico, mirabilmente espressa soprattutto nei ritratti matissiani. Esemplare è La signora Matisse, che l’artista francese realizzò nel 1913 con evidenti segni memori delle maschere della popolazione Punu del Gabon e di altre etnie del continente africano.

L’interesse di padre Costantino per le avanguardie, negli anni Quaranta con connotazioni di autodidatta, nel periodo degli studi teologici s’intersecò con il linguaggio della stampa francescana, caratterizzato da una grafica figurativa estremamente semplice e sintetica, e dall’impiego di disegni al tratto facilmente riproducibili in stampe a grande tiratura e a basso costo, ottenendo risultanze evocative e chiaroscurali. Numerose riviste e testate degli ordini mendicanti e del terz’ordine francescano, infatti, ricorsero sempre più spesso a questo tipo di comunicazione visiva che, sebbene non riscontrasse l’interesse e il plauso di padre Costantino, ne influenzò alcuni primi lavori realizzati su eterogenei supporti cartacei. Ricezioni dalla frequentazione quotidiana della grafica francescana, dalla più alta arte delle avanguardie e dallo studio delle modalità di impiego dei materiali poveri osservato in Matisse, che negli anni Quaranta e Cinquanta realizzò splendidi découpages, sono evidenti nelle prime opere di Ruggeri, oggi conservate presso la Fondazione Frate Sole.

Senza titolo, circa 1943, china su carta, 21 × 29,7 cm. Pavia, Fondazione Frate Sole

Si tratta di semplici figure di uomini e donne, dipinte in nero, su fogli di carta che talvolta presentano grandi incorniciature dai colori vivaci (ad esempio verde e rosso); le loro silhouettes rivelano l’attenzione del frate per la cultura africana. Nella piccola serie di pitture realizzata “durante l’anno di noviziato” (1943), oggi raccolte nella cartella d’archivio denominata “Primi disegni a matita”2, non solo emerge tutta la sua attenzione per ambienti lontani, ma è evidente, seppure con palesi salti di scala, l’affinità con la ricerca matissiana, in particolare con alcune sue specifiche opere, tra le quali La danza (1909), Danza II (1910) e Ballo (1913).

In questi piccoli dipinti dal forte carattere ritmico evocativo, nell’espressività essenziale di silhouettes vagamente astratte, appare l’adesione più o meno conscia di padre Costantino alle ricerche di numerosi artisti europei che realizzarono figure umane monocrome su sfondi chiari, che trovarono la loro massima espressione nella serie Nudi Blu di Matisse nel 1952. A differenza di queste, le opere di Ruggeri sono più introverse e meno narrative; la danza rappresentata in una di esse evoca nella memoria dell’osservatore alcuni combattimenti cerimoniali del centro Africa. Elementi di contatto con l’arte di questo continente sono evidenti anche nell’opera policroma intitolata Adamo ed Eva da lui realizzata nel 1954 e che si classificò al terzo posto al Premio Marzotto3.

Attraverso un linguaggio più figurativo, nella seconda metà degli anni settanta il francescano ‘riprese’ i suoi primi disegni di studio della Madonna nera per la chiesa di Santa Chiara, da lui progettata a Nyamugari (Burundi). In essa non riuscì a raggiungere lo stesso pathos emotivo degli anni precedenti, forse anche in ragione di altre ricerche e interessi sopraggiunti.

Di questa più recente ricerca è nota la tempera su carta, datata 3 agosto 1978, raffigurante la Madonna in trono con Gesù Bambino seduto in grembo, appartenente alla collezione del frate-artista4.

Nella fedeltà alla cultura delle avanguardie, nel periodo del postulandato e del noviziato per lui coincidenti con gli anni drammatici della Seconda guerra mondiale, padre Costantino si concentrò sulla formazione teologica e religiosa, nello studio della storia dell’ordine, del suo fondatore, della complessità sociale dei temi della missionologia, dell’enculturazione e dell’acculturazione. Oltre che negli alti ambienti ecclesiali e nelle scuole teologiche conventuali l’attenzione all’Africa, e più in generale alle terre di missione, ebbe ampio spazio anche nelle pubblicazioni francescane, evidentemente note al giovane frate. Non deve dunque stupire la frequente trattazione dei temi missionologici anche nel periodico “Frate Francesco”, rivista fondata nel 1933 la cui direzione era stata affidata alla romana Commissione del Terz’ordine francescano. Essa, tuttavia, veniva amministrata a Milano dal Circolo di cultura Francese ed era posta sotto l’alto Patronato di padre Vittorino Facchinetti (vescovo di Nicio e Vicario Apostolico della Tripolitania).

Si tratta di una rivista non certamente secondaria, nel panorama dell’educazione francescana, anche in ragione della sua apertura alla modernità fortemente influenzata da Facchinetti. Religioso colto, laureato in scienze storiche medievali all’Università di Lovanio e in teologia a Milano, egli si dedicò all’evangelizzazione secondo lo spirito francescano impegnando tutti i mezzi offerti dalle nuove tecnologie. Fu un antesignano dell’apostolato telecomunicativo, aperto alle differenti forme d’arte e divulgazione culturale. Curò numerosi concorsi artistici, realizzò due pellicole cinematografiche su san Francesco e sant’Antonio, concepì i noti francobolli delle Poste Italiane dedicate al centenario francescano (1926), organizzò il Congresso eucaristico nazionale e intercoloniale di Tripoli (1937) e divenne il “primo oratore sacro” dei microfoni della RAI5.

Senza titolo, circa 1943, china su carta, 21 × 29,7 cm. Pavia, Fondazione Frate Sole

È evidente che molte delle sue idee, espresse soprattutto negli anni venti e trenta, non trovarono piena corrispondenza in Ruggeri che, tuttavia, anche vi apprese una libertà espressiva costantemente orientata alla ricerca del vero, aperta con interesse alla modernità. Della cultura e religiosità facchinettiana, ad esempio, il padre condivideva l’amore per il buon cinema e la propensione a non aver paura dei moderni mezzi di comunicazione di massa: radio, cinema e televisione, come attesta la traslitterazione, in pitture legate all’universo francescano, di attori e personaggi pubblici del piccolo e del grande schermo6, in un’apertura alla modernità non condivisa da tutti i frati, ma molto più diffusa negli ambienti francescani colti di quanto si pensi abitualmente. Lo conferma, sulle stesse pagine del periodico “Frate Francesco” già dal 1936 l’invito di Giuseppe De Mori ai lettori e alla Chiesa a impiegare tutti i mezzi disponibili, per evangelizzare il mondo e la terra d’Africa, comprese le moderne nuove tecnologie telecomunicative7. Nel medesimo anno, sulla stessa rivista scriveva Francesco Aquilanti:

Non è vero che San Francesco sia contrario al sapere e alla scienza. I Frati debbono coltivare tutte le proprie attitudini. Ad un certo sapere è decisamente avverso ed è quel sapere libresco, che fa della scienza e dell’arte fini a sé stesse. Si creano così i cerebrali, gli Amleti perennemente disputanti, inclini allo scetticismo e alla disperazione […]. Le Regole francescane non hanno alcunché di rigido e d’immobile; si adattano ai tempi. Il Francescano è libero ed originale. Vi è in Lui fantasia e liricità8.

Su padre Costantino influì ancora di più il dibattito promosso da eterogenei ambienti cattolici e da numerosi vescovi, che si impegnarono in prima persona per promuovere una moderna riflessione sul valore e sul significato dell’evangelizzazione e sulle metodologie di incontro con culture e religioni differenti che, in ambiente francescano, coincideva con il recupero dell’identità del fondatore. San Francesco, infatti, concepiva la predicazione missionaria “costitutivamente apostolica” e aderente al carisma dell’esperienza fraterna fondata ad Assisi9.

Ruyigi (Burundi), alcune caratteristiche capanne d’abitazione costruite in legno, paglia e fango. Fotografia di padre Costantino Ruggeri, 1980. Pavia, Fondazione Frate Sole

Ruyigi (Burundi), particolare di una capanna costruita in legno, paglia e fango. Fotografia di padre Costantino Ruggeri, 1980. Pavia, Fondazione Frate Sole

Tra le maggiori personalità impegnate nel dibattito e nel rinnovamento degli atteggiamenti della Chiesa, vi furono il cardinal Charles-Martial Allemand Lavigerie, monsignor Alphonse Van Uytven, l’arcivescovo Celso Costantini e l’arcivescovo Giovanni Dellepiane che, nel 1936, organizzò a Léopoldville la prima esposizione di arte cristiana africana. Quest’ultimo fu tra i primi a promuovere un movimento interno alla Chiesa affinché la liturgia e l’arte sacra rispondessero pienamente alle istanze provenienti dalla cultura dei luoghi di missione. Per lui, infatti, la cultura e l’arte potevano, e dovevano, costituire uno strumento di preminente evangelizzazione e, per questa ragione, erano da rifiutare categoricamente le istanze di europeizzazione. Nella monografia dedicata dalla rivista “L’Artisan Liturgique” all’esposizione di Léopoldville il monsignore esortava a operare nel rispetto delle espressioni artistiche locali. Sotto l’impulso della Chiesa in cammino molti ordini religiosi si impegnarono, da allora, nella promozione artistica “indigena”; particolarmente significativa in questo campo fu l’esperienza dell’Istituto delle Suore Francescane Missionarie di Maria, aggregato sin dal 1882 all’Ordine dei Frati Minori, dalla quale ebbe origine la raccolta di opere oggi conservate nel Museo missionario lateranense.

Ruyigi (Burundi), un anziano del villaggio ripreso davanti a un edificio costruito con pietre locali. Fotografia di padre Costantino Ruggeri, 1980. Pavia, Fondazione Frate Sole

Ruyigi (Burundi), un bambino ripreso davanti a un edificio in mattoni cotti al sole. Fotografia di padre Costantino Ruggeri, 1980. Pavia, Fondazione Frate Sole

Il dibattito degli anni Trenta, inevitabilmente in parte connesso ai temi della colonizzazione, portò a una maturazione delle riflessioni sull’arte in ambiti religiosi, espresso, non senza qualche difficoltà, anche attraverso la Congregazione di Propaganda Fide, che si scontrò con le abitudini e la prassi edilizia di molte comunità religiose. Numerose furono le voci autorevoli del dibattito al quale partecipò anche il movimento nato attorno alla rivista “L’art sacré” allora diretta da Joseph Pichard, testata ben nota a padre Costantino che ne leggeva avidamente ogni articolo e della quale nella sua biblioteca si conservano le annate comprese tra il 1952 e il 1969. L’interessamento organico dell’artista francescano al tema emerse a partire dalla sua ordinazione sacerdotale (1951) e a seguito di un’acquisita autonomia pastorale, collegata dall’ordine alla sua vocazione di frate-artista. Mentre dipingeva e consolidava i rapporti con il contesto culturale milanese facente capo alla Galleria San Fedele di Milano che nel 1951 ospitò la sua prima mostra di pittura presentata da Mario Sironi, egli entrò in rapporto anche con altre importanti riviste di arte sacra, come “Arte e Fede”, dove sarebbe stato presente anche l’amico e confratello padre Nazareno Fabbretti.

In questi anni, sui problemi del continente africano e sui processi missionologici, si espressero anche il Sant’Uffizio e la Commissione episcopale per la pastorale, la liturgia e l’arte sacra della Chiesa francese, con immediata segnalazione ne “L’art sacré”, che auspicavano l’eliminazione delle immagini stereotipate, realizzate industrialmente, a vantaggio di forme artistiche più evolute e personalizzate. In questo periodo l’arte dell’Africa e dell’Estremo Oriente non erano ancora emblema dell’inculturazione, termine coniato solo negli anni settanta per differenziare il nuovo atteggiamento dai precedenti, denominati, di volta in volta, acculturazione, enculturazione, transculturazione, accomodazione, indigenizzazione e localizzazione. Ma, già in questi anni padre Costantino consolidò la propria interpretazione dell’arte ‘primitiva’, con la quale si era interfacciato nei decenni precedenti, anche perché coincidenti con la pubblicazione di numerosi volumi dedicati all’arte africana di specifiche etnie e aree geografiche. Ruggeri entrò infatti in contatto con gli studi dello storico e critico Werner Schmalenbach e consolidò la conoscenza delle maschere dell’Africa occidentale attraverso gli studi di Leon Underwood, considerato “Il precursore della scultura moderna in Gran Bretagna”10 fortemente influenzato dal linguaggio formale delle Isole Cicladi e dell’arte africana, autore inoltre di differenti volumi sull’arte del continente nero, tra cui celebre divenne Bronzes of West Africa, del 1949, e ancor di più Masks of West Africa, del 1952, anch’esso conservato nella biblioteca privata del frate lombardo.

Maschera copricapo della popolazione Batcham del regno Bamileké della regione nord-occidentale del Camerun, altrimenti noto come “sedia-maschera”. Collezione padre Costantino Ruggeri

Maschera cerimoniale della popolazione Bamum indossata come copricapo dai danzatori. Collezione padre Costantino Ruggeri

Testa di bronzo del popolo nigeriano Edo, della regione di Ife, raffigurante l’Oba, re e capo religioso. Collezione padre Costantino Ruggeri

Gli anni Cinquanta e sessanta coincisero con il suo crescente interesse per l’arte africana, ora sempre più indagata nelle componenti di cultura-religiosa e meno nelle implicazioni formali ed espressive. Egli sembrò anche disinteressarsi di tematiche prettamente etnografiche, come dimostra la sua personale collezione d’arte africana costituita, tramite reiterati acquisti e acquisizioni, nei decenni successivi. Le letture degli anni precedenti, la partecipazione al dibattito culturale riproposto periodicamente da “L’art sacré” che, nel 1962, dedicò un numero doppio all’arte sacra africana, rinnovato dalla rivista “Chiesa e quartiere”, trovarono sintesi interpretativa in alcuni scritti di padre Costantino. Nel 1967, ad esempio, pubblicò un breve saggio nella rivista “Missioni Francescane”, nel quale raccolse riflessioni sull’arte e sull’architettura delle missioni, definendole “annotazioni rapide” emerse dal suo “vagabondaggio estivo”.

Vi scrisse:

Bisogna smetterla di inviare nelle missioni materiale scartato dalle nostre chiese e sacrestie, o le rimanenze che non si smerciano più nelle botteghe dei mercanti del tempio. Ho visto nelle chiese di missione statue di una sciatteria e volgarità indescrivibili, immagini che insultano la religione e il buon gusto […]. Si devono dissuadere i missionari dal far eseguire dagli artigiani locali copie di opere d’arte di autori occidentali e dal presentare le figure di Cristo, della Madonna e dei Santi con i nostri caratteri somatici. Operando così, si potrebbe incorrere nel rischio gravissimo di un razzismo religioso, quasi che Cristo, la Madonna e i Santi disdegnino di avere la faccia di un negro o di un cinese.

In questi casi, si distolgono popoli semplici, ma vivi, dai loro autentici valori culturali e umani […]. Guaio peggiore è favorire il pregiudizio che tutto ciò che è occidentale, importato, sia meglio del loro patrimonio culturale e artistico! Sarebbe inoltre una vera offesa alla verità sottovalutare o disprezzare ciò che vi è di vivo, di genuino, di sano, in un luogo o in un popolo, per introdurre mentalità, costumi e tradizioni straniere […]. Per quanto riguarda le chiese, occorre costruire in armonia con l’ambiente e con gli edifici civili.

La chiesa deve accogliere la comunità cristiana e perciò sarà più grande della casa privata, ma deve anche fraternizzare con essa. Sia costruita con gli stessi materiali, si ispiri agli stessi sistemi costruttivi; la progettazione sia affidata ai professionisti più capaci del paese; insomma abbia il colore e il calore della natura che la circonda e del cielo che la copre. La chiesa deve essere architettura vera, giusta, sana, dalla terra e del popolo tra cui nasce, e non una specie di strana navicella spaziale approdata lì per caso. Nelle raffigurazioni sacre bisogna adattarsi al linguaggio e al simbolismo locale […]. La progettazione artigiana del luogo fornirà gli oggetti liturgici, con forme e materiali consueti all’arredamento delle case indigene. Nelle missioni tutti gli elementi dell’arte sacra cristiana devono essere l’espressione spontanea e naturale del volto di una terra e del cuore di un popolo, in cui Cristo possa essere accolto come fratello e non come uno straniero11.

Questa lunga citazione è esemplificativa della sua posizione maturata nei confronti dell’arte e dell’architettura da realizzare nei luoghi di missione. Essa è ben lontana dall’interesse per le forme dell’arte africana dimostrata nel primo periodo della sua attività di pittore e scultore, essendo ora occasione per una riflessione religiosa secondo lo spirito francescano prima ancora che estetica. Era una posizione maturata nel corso del tempo, compiutamente e sinteticamente espressa nell’intervista rilasciata a padre Nazareno Fabbretti nel 1995 per essere pubblicata sul volume Spazi di luce12 e con lui condivisa, in occasione di viaggi studio nelle missioni francescane sparse nel mondo. In questo processo di riflessione e scambi, l’artista e sacerdote bresciano cambiò radicalmente il proprio approccio interpretativo delle forme d’arte del continente nero, riscoprendone un significato profondo, più direttamente connesso con la propria identità di religioso francescano.

Fu un cammino di personale maturazione, culturale e critica, col quale si intrecciarono numerosi altri fattori legati alla storia dell’ordine e alla sua attività di frate-artista. Nel 1983 il Ministro generale, padre John Vaughn, diede avvio al “Progetto Africa” che intese rinnovare in chiave contemporanea il carisma e l’impulso missionario di san Francesco, aderendo pienamente alle istanze di rinnovamento sancite dal Concilio Vaticano II e dal decreto Ad gentes dedicato all’attività missionaria della Chiesa, promulgato il 7 dicembre 1965, da Paolo VI unitamente ai padri conciliari. È in questo contesto che all’interno dell’Ordine dei Frati Minori si aprì un grande dibattito di rilevante riscontro a partire dal Capitolo Generale di Medellin del 1971, che suggerì al Ministro Generale di scrivere una lettera a ogni frate affinché rispondesse alla chiamata missionaria della Chiesa e del nuovo progetto interprovinciale. Il dibattito interno che ne emerse investì inevitabilmente molti aspetti della missionologia e dell’africanità, che per padre Costantino costituirono occasione per nuove sollecitazioni e riflessioni sull’“arte nera”.

Porta di un granaio, o “case per la conservazione del grano”, dell’altopiano di Bandiagara appartenente alla popolazione Dogon. Collezione padre Costantino Ruggeri

L’intenzione del Ministro e del Capitolo generale di coinvolgere solo confratelli “adeguatamente preparati”, disposti a studiare attentamente le lingue e le culture africane, costituì per lui un incentivo non secondario per continuare a confrontarsi con l’arte di questo continente. Un interesse ben presto chiamato a divenire attività professionale con l’incarico di costruire tre chiese in Burundi sul finire degli anni settanta, affidatogli dalla Provincia minoritica di Genova. Nel 1978, dunque, padre Costantino iniziò la progettazione per la piccola chiesa di Santa Chiara a Nyamugari (Burundi), la cui costruzione ebbe avvio l’anno successivo e terminò nel 1980. Nel frattempo, insieme all’architetto Luigi Leoni, cominciò a progettare la chiesa di San Francesco a Kayongozi (1979), la cui costruzione ebbe inizio nello stesso anno e si concluse nel 1983. Terminata questa seconda avventura, nello stesso anno la Provincia genovese dei Frati Minori gli affidò l’incarico di progettare, insieme a Leoni, la chiesa succursale di Nyakayi, i cui lavori si protrassero dal 1983 al 1987. In questi anni Ruggeri viaggiò molto; si recò in Africa, nel Burundi, dove realizzò significativi reportage fotografici di cui restano preziose testimonianze nell’archivio della Fondazione Frate Sole. In esse l’arte africana è pressoché assente o molto limitata, mentre risulta ampiamente documentato il suo interesse per la conoscenza e la comprensione degli spazi di vita comune delle popolazioni del Burundi. I suoi scatti indugiano sul paesaggio, sugli attrezzi da lavoro e di pesca, sulle piroghe ricavate da tronchi scavati, sulle architetture locali e su alcuni momenti della vita quotidiana. Sebbene esistano fotografie ‘di rito’, scattate con i personaggi in posa, è evidente la sua predilezione per le fotografie ‘rubate’ in cui il soggetto è ritratto nella spontaneità gestuale di chi è ignaro di quanto sta accadendo. Questi scatti, però, rivelano anche il pudore e la delicatezza dell’approccio con il quale padre Costantino si avvicinava ai suoi ‘fratelli africani’, quasi con il timore di disturbare e ‘violentare’ con la macchina fotografica. Numerosi scatti, infatti, sono eseguiti da lontano, da dietro gli alberi o con i soggetti che gli voltano le spalle. Sperimentò allora una tecnica fotografica personale che gli consentì di narrare il suo peregrinare per il Burundi senza essere distolto dall’interesse, finalizzato all’impegno di costruire chiese, per le architetture povere, i recinti, i muri di fango e i disegni dei bambini incisi a graffito nelle murature. Disegni semplici dell’arte infantile sui quali il frate indugiava con gioia, che rappresentano aspetti della quotidianità (come il lavoro nei campi e il gioco del pallone) e gli animali che popolavano la vita del villaggio (ad esempio galli, galline e polli), tracciati su murature importanti per padre Costantino, perché “i muri e i tetti delle loro capanne i negri li realizzano con estrema facilità, cantando. E sono muri belli […] I muri di ‘poto-poto’ (fango)”, e aggiungeva:

[…] gli Africani li fanno con le mani, cioè li modellano come corpi umani. Quei muri non sono freddi, spigolosi, anonimi. Sono fatti dall’uomo, non dalla macchina. Vedendoli, ti vien da pensare che il Creatore, nel plasmare il primo uomo, debba aver avuto nelle sue “mani” la medesima innocenza di questi innocenti. Hanno calore, morbidezza, eleganza, estro. E ti vien voglia di accarezzarli13.

Ruyigi (Burundi), fotografia di alcuni graffiti zoomorfi realizzati su un edificio del villaggio (fotografia di padre Costantino Ruggeri, 1980). Pavia, Fondazione Frate Sole

Ruyigi (Burundi), fotografia di alcuni graffiti che raffigurano uomini e animali realizzati su un edificio del villaggio (fotografia di padre Costantino Ruggeri, 1980). Pavia, Fondazione Frate Sole

La capacità di leggere la realtà, che gli si offriva attraverso il mezzo fotografico, e il desiderio di comprendere pienamente l’Africa lo spinsero a mutare radicalmente il proprio atteggiamento nei confronti dell’arte e del continente. Emblematici sono i suoi appunti che dimostrano come, da oggetti semplici di uso quotidiano e da elementi della natura egli sapesse cogliere l’ispirazione per creare nuove opere d’arte o progettare architetture. Si stupiva di continuo della natura, intravedendo in essa infinite possibilità creative. In tutti i viaggi da lui fatti, in Africa e in Oriente, incontrò gente, visitò monumenti, fotografò e riportò su grandi quaderni e album le proprie impressioni prestando attenzione a ogni particolare, fino a cogliere in un sasso trovato per terra la forma finita di una chiesa. Con grande libertà tratteneva in sé tutto quello che vedeva; lo sguardo con il quale fotografava i popoli, le loro architetture, le loro espressioni d’arte non si traduceva meccanicamente in linguaggio figurativo, poiché era in primo luogo un abbraccio culturale spalancato alla trascendenza e alla creatività artistica. Attraverso l’Africa e l’“arte nera” Ruggeri apprese a guardare con rinnovata intensità; in questo modo tutto ciò che vedeva divenne una differente declinazione del Cantico delle creature di san Francesco rigenerato dall’uomo africano. In questo periodo entrò in una familiarità profonda con i linguaggi del ‘terzo mondo’, ritrovandovi feconde corrispondenze con la propria. Ne trasse una sorta di linfa vitale che contribuì all’esplosione del proprio immaginario figurativo consentendogli di comprendere più a fondo la realtà assunta ed esaltata dalla propria sensibilità umana. In qualche modo il rapporto con l’Africa, l’esperienza del Burundi e l’occasione di costruire numerose altre chiese, unitamente alla possibilità di esprimersi attraverso il vetro e i materiali poveri, gli consentirono di esperire con rinnovato fulgore il suo stesso essere francescano e artista. Senza paura di smentita l’Africa divenne per lui occasione di riflessione su tutta la sua esistenza: memoria dell’intera storia personale di uomo, frate, sacerdote, pittore, artista e architetto.

Forse proprio per questa ragione egli cominciò a comperare maschere provenienti da tutta l’Africa. Di esse ne riempì il suo studio pavese e se ne circondò. Le pose alle pareti, le adagiò sulle travi e le dispose per terra raccogliendo anche pezzi antichi di indiscusso valore. La sua cospicua raccolta di circa 200 opere, oggi conservata in differenti ambienti del convento di Canepanova a Pavia e nei locali in uso alla Fondazione Frate Sole, comprende indistintamente, solo per fare qualche esempio, bronzi Dogon, maschere camerunensi della popolazione Bamum, croci e icone copte, espressioni artistiche Mandé e Dan, sedie-maschere Bamileké, maschere antropo-zoomorfe “Atua Afungo” della regione nord-ovest del Grassland, sculture Guro provenienti dalla zona forestale interna della Costa d’Avorio, bracciali-moneta Dogon, e altri soggetti ancora.

Padre Costantino Ruggeri nel suo studio (2004). Pavia, Fondazione Frate Sole

Padre Costantino Ruggeri nel suo studio insieme a Richard Meier (4 ottobre 2004) in occasione della consegna all’architetto statunitense del Premio Internazionale di Architettura Sacra “Frate Sole”. Pavia, Fondazione Frate Sole

Le fece schedare molto sommariamente dai suoi collaboratori, ai quali, però, non chiese di studiarle. Per ogni scultura o maschera fece realizzare una riproduzione fotografica da incollare su cartoncini colorati, dietro ai quali fece scrivere un titolo assolutamente generico (ad esempio statua africana, maschera africana o testa in bronzo dell’Africa), la materia o la tecnica esecutiva, le misure e la precisa collocazione all’interno del suo studio14. Da queste richieste si deduce che a padre Costantino non interessava la provenienza dell’oggetto e il suo valore etnografico, ma esclusivamente la sua vaga dimensione antropologica. Probabilmente a lui bastava relazionarsi con questi oggetti perché prodotti dall’uomo africano in quanto tale, non in quanto appartenente a una specifica etnia o gruppo sociale. Essi erano per lui interessanti in quanto testimonianze di una cultura antica e vitale capace di generare oggetti di grande espressività e potenza evocativa. Per questa stessa ragione non distinse le diverse funzioni delle sculture; l’insieme conteneva infatti anche oggetti africani di uso quotidiano, come uno sgabello-poggiatesta, un cucchiaio di legno, un vaso in terracotta, una ciotola lignea o strumenti musicali.

Questa significativa raccolta, che attende ancora di essere pienamente valorizzata e attentamente studiata, era per lui richiamo costante all’incontro, nel carisma francescano, della Chiesa con le diverse culture, in adesione alle sfide del futuro profeticamente annunciate dal Concilio Vaticano II. Gli oggetti disseminati ovunque nel suo studio testimoniano il profondo sentimento missionario di padre Costantino, che traspare anche nelle prediche degli anni Ottanta, in particolare in quella pronunciata in occasione della XX domenica del tempo ordinario, nella quale, facendo riferimento ai suoi viaggi in Oriente e in Africa, ebbe modo di dire:

Guardandomi attorno, certamente ho visto segni significativi della fede e dell’amore cristiano, ma anche quante testimonianze della nostra presunzione, della nostra vanità! Intanto, le barriere della razza! Per diversi Padre Costantino Ruggeri nel suo studio (2004). Pavia, Fondazione Frate Sole Padre Costantino Ruggeri nel suo studio insieme a Richard Meier (4 ottobre 2004) in occasione della consegna all’architetto statunitense del Premio Internazionale di Architettura Sacra “Frate Sole”. Pavia, Fondazione Frate Sole secoli, la nostra è apparsa la religione dei bianchi portatori di civiltà terrena e di salvezza eterna ai popoli non bianchi. Barriere di cultura: abbiamo portato il Vangelo legato a una cultura “nostra”, profondamente estranea alla cultura indigena, e una liturgia di segni indecifrabili al vivere quotidiano di quella gente […]. Nonostante lo spirito evangelico del Concilio Vaticano II, ci sono molti che ancora considerano intangibili tante tradizioni, forse venerabili nel passato, ma ormai morte e apportatrici di morte. Molti rimpiangono i vecchi riti, le pratiche devozionali ormai abbandonate e vedono nel rinnovamento liturgico quasi una deviazione della fede e un sentore di eresia, perlomeno, un affievolirsi delle pratiche religiose.

Amici […] la vita si rinnova. Il Vangelo è novità; il cristiano deve sempre operare una rinascita interiore, com’è legge vitale dello Spirito che ci anima. Coloro che sono ancorati al passato senza il coraggio del presente e dell’avvenire si ripiegano su sé stessi, senza guardare il Cristo che sta davanti, sulle strade degli uomini, perché Lui è sempre e soltanto nella felicità e nella disperazione dell’uomo15.

1 C. Ruggeri, L. Leoni (a cura di), Spazi di luce, Elledici, Torino 1995, p. 67.
2 Archivio Fondazione Frate Sole, cartella “Primi disegni a matita”.
3 Collezione “I premi Marzotto”.
4 Collezione Padre Costantino Ruggeri. Opera pubblicata senza firma e data in A. Sabatucci (a cura di), Costantino Ruggeri. L’architetto di Dio, Skira, Milano 2005, p. 100.
5 A. Fappani (a cura di), Enciclopedia bresciana, La voce del popolo, Brescia 1978, vol. 3, ad vocem.
6 Per questo tema si rimanda al saggio di Maria Virtus Zallot presente in questo stesso volume.
7 G. De Mori, La vocazione africana di S. Francesco e l’Italia Imperiale, in “Frate Francesco”, IV, 1936, 4, pp. 205-208.
8 F. Aquilanti, S. Francesco e i tempi nostri, in “Frate Francesco”, IV, 1936, n. 3, pp. 161-168. 9 Voci Predicazione, predicatore e Missione, mandato, in E. Caroli (a cura di), Dizionario francescano, Messaggero Padova, Padova 1983, coll. 1413-1430; 1007-1022.
10 C. Neve, Leon Underwood,Thames and Hudson Ltd, London 1974, p. 2.
11 Dattiloscritto conservato nell’Archivio della Provincia Sant’Antonio dei Frati Minori in Milano. Appunto trascritto, sprovvisto di segnatura.
12 Ruggeri dichiara: “Il loro scopo [delle avanguardie artistiche] era diverso dal mio, essi si rifacevano alla vita e all’arte di quei popoli primitivi per uscire dalle secche della cultura europea. L’arte negra in modo particolare fu per essi fonte di ispirazione, quasi un ritorno alle origini per nuove ebbrezze di creatività. Pensa ad alcune opere cubiste di Picasso, di Modigliani, di Brancusi. Anch’io andai in Africa non però per scrollarmi di dosso la cultura occidentale, ma per farmi il cuore e gli occhi degli Africani. Lo ritenevo un fatto essenziale per operare con onestà in quel continente. Pensavo: ‘E certamente anche le opere che poi farò nel mio paese ne ricaveranno linfa, genuinità e slancio’”. Ruggeri, Leoni (a cura di), Spazi di luce cit., p. 67.
13 Ruggeri, Leoni (a cura di), Spazi di luce cit., 69.
14 Schedatura di queste opere presso lo studio dell’architetto Luigi Leoni, in cinque quadernoni ad anelli sprovvisti di segnatura.
15 Archivio storico della Provincia Sant’Antonio dei Frati Minori a Milano, Prediche di padre Costantino Ruggeri, quaderno manoscritto 5°.

E io cerco una casa da dividere con Dio

“E io cerco una casa da dividere con Dio”1
Maria Antonietta Crippa

Perché l’architettura

L’approdo per gradi di padre Costantino all’architettura, matura espressione di un percorso artistico iniziato da pittore, è risposta di incondizionata generosità e di convinta determinazione a una sfida, evidente se si condivide la sua collocazione ai margini, ma partecipe, del grande tracciato di innovazioni del XX secolo: restituire all’uomo contemporaneo, amato come fratello, l’esperienza risanatrice della familiarità con Dio, che gli era stato dato di gustare a lungo nell’orizzonte della sua fertile Franciacorta contadina e nel silenzio della nuda e bianca cella conventuale. Disorientamento, solitudine, aridità di cuore dell’uomo del XX secolo, travolto da guerre di una crudeltà prima ignota e da un’industrializzazione incalzante, che aveva squilibrato millenari assetti insediativi, dovevano essere contrastati e vinti tramite luoghi che offrissero – in spazi, forme, colori e luce – un nuovo alfabeto di segni nella sorgiva, spontanea corrispondenza tra vita e fede, anche con qualche inevitabile strappo a consolidate consuetudini.

Il frate francescano si sentì molto presto irresistibilmente attratto al compito, oltre che assecondato da favorevoli tappe di destino. Riteneva infatti che non si potesse, se non colpevolmente, privare il contesto contemporaneo della dinamica di comunità che ha nome Chiesa e che ha il proprio fulcro spazio-temporale, d’istituzione e d’irradiazione, nell’edificio omonimo. Sacerdote nel 1951 e pittore riconosciuto nello stesso anno, già nel 1955 cominciò a occuparsi dell’insieme di temi chiamati per consuetudine arte sacra; a proporre originali orientamenti sia in campo pubblicistico, collaborando con la rivista bolognese “Chiesa e Quartiere”, sia tramite ideazione e realizzazione di suppellettili liturgiche per importanti architetti, attivi in Milano e in Bologna, come Figini, suo grande amico, Pollini, Gardella, Ponti, Vaccaro, i fratelli Gresleri; a far propri quei principi della riforma liturgica che già circolavano e che avrebbero trovato conferma, a seguito del Concilio Vaticano II tra 1962 e 1965, in un quadro di rinnovamento ecclesiale di grande respiro, per questo segnato da tuttora vivace drammaticità attuativa. Due furono i suoi principali e convergenti obiettivi: costruire chiese nelle quali un massimo di espressività artistica si modulasse entro un registro spaziale di nobile semplicità, a incremento della ‘partecipazione attiva’ del dettato conciliare; salvaguardare il valore di segno dell’edificio, perché costituisse seme di un regno non di questo mondo e tuttavia già in fieri nella comunità in esso raccolta. Gli occorreva dunque coniugare povertà e bellezza, umiltà e splendore, semplicità e saggezza compositiva: polarità tutte che gli consentirono di scansare la diffusa e omologante superficialità estetica del moderno benessere.

Primo modellino in carta realizzato da padre Costantino per la chiesa di San Bernardo di Chiaravalle, in Roma, realizzata poi in forme parzialmente differenti; si vede la forma di una colomba. Pavia, Studio Ricerca Arte Sacra

Non mirò a rendere funzionale e gradevole l’architettura in chiave moderna, alle cui ragioni di essenzialità peraltro aderiva, ma a prendersi cura del suo legame con esigenze spirituali, incalzando responsabilità e destino dei suoi abitanti. Mostrò indifferenza per i messaggi più altisonanti della stagione funzionalista e razionale, della prima modernità internazionale, e di quella più eclettica della successiva fase postmoderna. Fu invece sensibile alla forza poetica di chiese cristiane realizzate da maestri, a partire da Le Corbusier fino a Mies van der Rohe, Tadao Ando, A´lvaro Siza e altri. Al punto da decidersi ad attivare il premio internazionale Frate Sole per dar valore al continuo emergere di chiese cristiane esemplari.

Chiesa di San Bernardo di Chiaravalle, quartiere Centocelle di Roma, disegni di progetto, prospetti e sezione.
Pavia, Fondazione Frate Sole

Non manifestò interesse alcuno per gli essenziali requisiti del costruire dipendenti da tecniche e da tecnologie, il cui rapido incremento è ragione principale fino a oggi di esiti formali di largo successo. In questa autolimitazione, non di poco conto, s’inscrive il ruolo da lui assunto nel progetto d’architettura. Anche indipendentemente dal titolo di studio, un tempo non posseduto da molti che esercitavano la professione, non lo si può ritenere architetto in senso proprio per più ragioni: non ha mai elaborato graficamente un progetto e non ha diretto cantieri, che tuttavia frequentava per comprendere, nel farsi corpo della costruzione, come intervenire con componenti qualificanti. Non ha dunque praticato la razionalità del costruire nelle sue sequenze sia ideative che pratiche, dal progetto generale a quello esecutivo, al coordinamento delle competenze tecniche inerenti, fino agli oneri amministrativi.

I progetti che portano il suo nome emersero sempre da collaborazioni nelle quali egli si implicò in più modi: nella definizione di un appena accennato schizzo planimetrico e distributivo; nel controllo della definizione plastica dei volumi tramite modelli tridimensionali, elaborati talvolta a più riprese; nel progetto di forme libere con valore di ornato; nelle rifiniture superficiali interne ed esterne; nella comunicazione dei significati globali delle sue chiese, in dibattiti e pubblicazioni2. Totalmente suoi furono gli arredi dei poli per la celebrazione, le vetrate, le panche, i confessionali, le suppellettili di ogni tipo, le vesti, le scelte materiche. Visse in prima persona, da interlocutore diretto, il rapporto con la committenza, alla quale si propose sempre come garante dell’intero processo.

Suo criterio procedurale di riferimento, nella ricerca della fusione tra esistere e abitare da lui chiamata “unità ‘spazio uomo’”3, era il lavoro artigianale dei costruttori medievali grazie al quale egli affermò: “La cattedrale si trasformava in scuola, officina, aula politica, forense, culturale e commerciale. Così tra l’artista, gli uomini e la loro impazienza di bellezza si realizzava l’unità”4. Si concepiva dunque, praticando l’architettura, un artigiano-artista di sensibilità medievale, in un pragmatico esercizio ideativo privo di qualsivoglia astrazione intellettuale.

È indispensabile un’ultima precisazione di metodo: fra Costantino ha creduto senza incertezze nell’immagine artistica, nella fioritura in lui di figure, geometrie, segni, nessi tra colori, disegni di macchie, esaltazione delle qualità intrinseche delle più diverse materie. Ha creduto anche con franchezza nella possibilità di condividerla con altri. Senza i tormenti tipici di molti artisti moderni, si affidò al pullulare, nel “mondo della sua anima” come disse5, di un immaginario alimentato contemporaneamente dai due ambiti dell’arte moderna e della fede. Vi colse lampi di luce misteriosa, svelamenti di presenze cui dar nome fraterno o divino, rapporti di consanguineità tra la propria e l’altrui intimità, e tra questa e la consistenza fisica multiforme della natura e del mondo. Lasciò pertanto che questo suo visionario immaginare venisse guidato, in lui, dalla fiduciosa certezza di poter celebrare la bellezza della condizione umana e del cosmo intero, l’una e l’altro segnati dalla resurrezione, in un anticipo di Eden riscoperto e d’innocenza ritrovata. Per raggiungere questo scopo ha attraversato ogni sforzo, con la naturalezza, l’umiltà e la trepida ma paziente attesa del contadino al lavoro nei campi.

Nel processo critico secondo il quale svolgo queste riflessioni, mi sono, per così dire, costretta a partire dall’enucleazione di scopi, limitazioni obiettive e metodo procedurale, caratterizzanti l’attività di padre Costantino nella realizzazione di chiese – dal 1977 fino al decesso nel 2007 – per dare la massima evidenza possibile all’interno rigore del suo lavoro, attuato non solo in serena fedeltà di appartenenza all’Ordine, ma anche nella libertà di rapporti amicali, di cui sono tuttora percepibili gli echi, con i confratelli, gli amici artisti e architetti, i giovani collaboratori, gli artigiani e le committenze.

Negli ultimi trent’anni, inoltre, ormai fisso nell’amata Pavia, egli non sospese le sperimentazioni di pittura e di scultura; le estese anzi e le aprì, oltre che alla fotografia, anche a sviluppi dei quali sono individuabili ricadute importanti nelle sue architetture. Queste ultime sono state da lui concepite, in coordinata unità di componenti a tutte le scale, come segno dell’universo liturgico cristiano. La sua esperienza di frate, sacerdote, arti- sta, artigiano e, se si vuole, di architetto sui generis, risulta dunque del tutto peculiare nella sintesi di accenti umani gioiosi che anticipano l’Evangelii gaudium al quale invita l’attuale papa.

Inevitabili momenti isolati di disagio, nel contesto ecclesiastico conventuale e istituzionale, non intaccarono integrità, docilità e freschezza della fede ruggeriana sempre memore, come egli ricordò evocando un dialogo tra Picasso e Matisse, dell’innocenza della prima comunione6. Con candore, in- fatti, declinò l’opzione per la modernità artistica, in modi che riteneva a sé consonanti, nella radicalità di un’appartenenza francescana nella quale si sapeva chiamato quasi casualmente fin dall’infanzia. Si trattò, per lui, di tenere saldamente unite in sé, senza scivolar fuori dalla ricerca artistica personale o fuori dal suo storico e specifico contesto ecclesiale, le due dimensioni.

In più occasioni ho già esplorato la produzione complessiva di padre Costantino. In due recenti saggi7 in particolare, ai quali rimando senza qui ribadirne i contenuti, ne ho sinteticamente delineato il progressivo e in- calzante ampliamento di esercizio artistico. Vi ho fatto emergere anche la sua geniale assimilazione e trasposizione in linguaggio contemporaneo, di matrice avanguardistica ma piegato a significati biblici e francescani, della religiosità nell’aurorale arte cristiana delle più antiche catacombe romane. Ne fece la premessa per suggestivi messaggi strutturati in grandi e colorate composizioni di vetro antico soffiato.

Modello in bronzo della chiesa San Paolo, in Rho (Milano); il campanile non è stato realizzato. Pavia, Studio Ricerca Arte Sacra

Un’importante annotazione redazionale, a fianco della prima pagina di uno scritto di Ravasi – pubblicato nel 1995, corredato da foto e da una tavola-regesto con quattordici schemi planimetrici di chiese e cappelle, tutte di Ruggeri – mise in luce, da una parte, i “rapporti rigorosi tra gli elementi liturgici, quasi sempre legati da un andamento sinuoso del fondo-spazio, in contrasto con la grande libertà nell’invenzione della forma globale”; dall’altra, il loro totale distacco dal rimando a tipologie tradizionali o a un nuovo modello privilegiato come normativo, a favore di “rapporti di intensità energetica, luministica, coloristica e scultorea degli elementi tra loro interagenti con lo spazio e con la gente”8.

L’autore, certamente Glauco Gresleri9, approfondì l’anno successivo l’interpretazione qui accennata, mettendo a fuoco i termini del passaggio dalla scultura all’architettura, sviluppato da fra Costantino con il sostegno imprescindibile dell’architetto Leoni.

L’originaria emergenza della seconda, nella tridimensionalità dell’unitaria modellazione volumetrica strutturante un primo insieme di problemi statici e costruttivi, era la maquette. L’ordinamento spaziale interno veniva invece sviluppato tramite aggregazione di luoghi liturgici messi in rapporto, tra loro e con i loro sfondi, secondo intuitive relazioni prossemiche. Infine, l’unità spaziale interna era ottenuta dalla mobile intensità luministica, arricchita da trasparenze, delle ampie vetrate, con effetti colorati portati su poli liturgici, soffitto, pavimento e panche, persino persone. L’esito parve a Gresleri un inedito concretizzarsi dell’edificio a partire dai gesti liturgici, miranti a creare una cava e vibrante spaziosità.

Ruggeri volle che i disegni finali delle sue soluzioni, soprattutto in pubblicazioni, fossero ridotti il più possibile a sintetici profili calligrafici, quasi per smaterializzarne la consistenza architettonica; doveva infatti emergervi, in nudità, il volto di un ordine di vita comunitaria che anticipava, nell’allusione dei segni, un mondo spirituale non rappresentabile.

Anche Giorgio Trebbi formulò lucidi giudizi: all’insufficienza di molte chiese moderne – interpreti di un’esaltazione funzionalistica foriera di uno pseudo accademismo normativo e liturgico – contrappose il superiore scatto di creatività, caratterizzata da decisa intensità emozionale, nelle chiese dell’amico frate. Nella sua prima chiesa a Varese colse, con perspicacia, quella che sarebbe divenuta costante ideativa ruggeriana: una concezione volumetrica ‘introversa’ come condizione per la sorpresa dello spazio interno, sempre controbilanciata da consistenti pareti vetrate10.

L’indice di Spazi di luce – libro messo a punto dallo stesso padre Costantino, con scritti propri e di autori amici, per i singoli progetti architettonici, civili e religiosi, già realizzati, in fieri, ancora solo in maquettes – evidenzia sia il significativo processo di maturazione nel progetto da parte dei loro autori, il padre e Leoni, che il senso delle ricerche plastiche del primo.

Dopo l’insieme di undici chiese – a partire dalla prima in Varese (1977) fino a quella nel quartiere romano Centocelle (1988-1993) e alla cappella Moretti, a Erbusco (Brescia) – viene proposta una breve sequenza di interventi diversi tra loro: il restauro dell’eremo carmelitano, o Deserto, a Varazze (1986-1990); la costruzione della Casa per gli amici Lina e Giordano (1976) in Borgo a Buggiano, presso Pistoia (1976); la ristrutturazione, con aggiunta di una cappella di soli 119 mq, del Carmelo femminile di La Spezia. Seguono, nell’indice, i capitoli per le Celle e i Cenacoli, questi ultimi proposti secondo un ordine non cronologico, ambedue corredati da importanti riflessioni di Ruggeri.

Le Celle, già presentate nella Galleria milanese di San Fedele nel 1978 e in un volume del 1982 che ne raccoglieva 28, sono fragili sculture in cartone e altri materiali poveri, che alludono a uno spazio interiore. Qualcuna è contrassegnata dal disegno a parete di un sole o dalla presenza di un minuscolo tavolo, forse un altare, o di piccole masse. “Segni umili e assoluti di uno spazio nascente, espressivo dell’anima e ospitale del cuore”, “spazio mistico più che sacro”, “cuore antico” del “più trasparente e coraggioso futuro”11, esse, insieme alla serie I trasparenti, non esaminati in questo libro ma presenti nella sezione a colori, testimoniano l’aspirazione dell’artista a generare forme, egli disse, “con materie povere come il pane”, prezioso prodotto del lavoro umano che, col vino, ospita la presenza eucaristica di Cristo.

I Cenacoli, luoghi dello spazio mistico mai tradito “anche se in molti casi avrebbe potuto essere più radioso”12, vennero ricavati in spazi o cappelle preesistenti (dal 1966) oppure costruiti ex novo in dimensioni molto ridotte (dal 1970). Presentati in tredici proposte (una è in una casa di civile abitazione), memori della prima, piccola compagnia amicale raccolta intorno a san Francesco, essi sono dono offerto a “un arcipelago povero e felice” di piccole comunità cristiane di base, diffuse in varie parti del mondo a partire dagli anni sessanta. Nell’indice del libro, dopo Celle e Cenacoli, la presentazione dei progetti di chiese riprende con il santuario romano del Divino Amore (1987-1999) e quello giapponese, nel 1996 solo iniziato, aYamaguchi (1993- 1998). Il volume si chiude con maquettes di progetti non ancora realizzati. Celle e Cenacoli vengono dunque incastonati tra due gruppi di chiese, per segnalare, tra due stagioni di progetti, lo scatto di autocoscienza individuato dallo spazio mistico.

A una prima mia verifica, le note critiche di Gresleri e di Trebbi trovano conferma in tutti i Cenacoli realizzati. Ne vanno però aggiunte altre: la rimodulazione altimetrica dei siti quando necessario; l’attenzione ai rapporti col paesaggio circostante; la costante preferenza per volumi interni di altezza molto controllata; la non prevaricazione della specificità delle culture locali; l’utilizzo sempre più virtuosistico delle vetrate e dei loro colorati e mobili effetti luministici.

A titolo esemplificativo, richiamo qui, in breve, tre casi della prima sezione. La chiesa di Santa Maria della Gioia in Varese13, sua prima “creatura”14 allora succursale della parrocchia di Sant’Antonio alla Brunella, ebbe un avvio non semplice, movimentato da membri della comunità non convinti del progetto che però venne scelto, tra i quattro proposti, dall’architetto Luigi Caccia Dominioni chiamato a consulto. L’agitazione si mutò, in fase di costruzione, in calorosa amicizia tra i progettisti, Ruggeri e Leoni, e i committenti, gli impresari, gli operai.

Posizionata su un terreno rimodellato in modo da ricavarvi un ‘golfo mistico’, nel quale un blocco di pietra serviva per celebrazioni all’aperto, la chiesa – in calcestruzzo armato, con capienza di 100 persone e rialzata, come il sagrato coperto, sopra un piano di sale per incontri di comunità – presenta tondeggianti pareti rifinite a bianco intonaco rustico, con una vetrata di più di 100 mq in vetro antico soffiato. La sovrasta un ampio tetto-terrazzo a giardino pensi- le, con ricoveri per la nidifica- zione di uccelli. Dall’ingresso, affacciato su battistero e aula, si viene avvolti in una gioiosa atmosfera costellata da prezioso arredo sacro, in gran parte in bronzo: una vera festa della fede. Monsignor Giovanni Fallani (1910-1985)15 vi riconobbe il messaggio francescano della perfetta letizia, proposto senza la pretesa, allora diffusa e in realtà solo “fatto retorico”, di un “ritorno alle origini”.

Le chiese nelle missioni francescane d’Africa (1979-2001), povere di ornato e ricche di accenni all’abitare locale nel tocco lieve delle soluzioni e nella lealtà del confronto con le popolazioni conosciute, registrano un’umile ricerca, consapevole di rischi e danni della colonizzazione, di legami tra l’universale senso religioso cristiano e il suo prendere corpo nelle singole culture, eco di una presa di coscienza cattolica

giunta a piena consapevolezza nel Concilio Vaticano II, espressa nel decreto conciliare Ad gentes, del 1965, e nell’esortazione Evangelii nuntiandi, del 1975, di Paolo VI.

Disegni di progetto generale per il santuario di San Francesco Saverio a Yamaguchi, in Giappone: collocazione sulla collina, planimetria e sezione. Pavia, Fondazione Frate Sole

L’esplosione del messaggio biblico in imponenti vetrate domina lo spazio interno della chiesa parrocchiale di San Bernardo di Chiaravalle in Roma. Nell’ovale planimetrico il bema in bianco statuario di Carrara, staccato dalle pareti, compatta in blocco unico altare, sede, ambone e battistero. Sull’asse longitudinale esso impone un ordine celebrativo simmetrico e trasversale, contrastato da varie dissimmetrie in una tensione ribadita, all’esterno, nella disposizione di campanile, chiesa, volumi di opere parrocchiali attorno al piazzale, un tempo a prato. All’interno, il pavimento in serizzo grigio, le pareti e il soffitto in pannelli in gesso, tutto in bianco come il bema, catturano, in riflessi a specchio cangianti nelle ore del giorno, la luce colorata delle vetrate che propongono uno straordinario racconto cifrato con fulcro nell’altare16.

L’ultima sezione del libro presenta due santuari: il primo, del Divino Amore in Roma, è prova a grande scala dei principi compositivi messi a punto da Ruggeri e Leoni; nel secondo, il santuario di San Francesco Saverio a Yamaguchi, emergente con due campanili nella collina che sovrasta la città, la proporzione tra pareti piene e vetrate rafforza la consistenza muraria in omaggio, o forse in consonanza, col senso giapponese della luce. Essa, infatti, restando colorata e ricca di messaggi è qui però meno dirompente di quella di molti altri progetti ruggeriani, perché “trattata architettonicamente e in questo senso astratta”, non naturalistica, secondo la felice espressione di Tadao Ando17.

Spazi felici, sensibilità, povertà: volti del mistero cristiano

In brevi accenni ho qui inteso solo stimolare curiosità per le ragioni di procedure non usuali, e tuttora troppo poco esplorate, nei progetti di chiese di Ruggeri e Leoni. Il devastante sviluppo urbano italiano, nel quale quasi tutte le chiese parrocchiali sono inserite e la normale trascuratezza, nella loro generale gestione quotidiana, attentano facilmente alla loro integrità materica e di immagine, che merita invece storicizzazione, rispetto e tutela. Poiché molto resta da comprendere sull’attività di quest’artista francescano, per introdurre ulteriori esplorazioni tratteggio in sintesi, qui di seguito, tre complesse aree tematiche.

In primo luogo, si dovrà scandagliare prossimità e distinzione tra spazio mistico di padre Costantino ed espace indicible di Le Corbusier. Il primo, molti anni dopo l’incontro con il celebre architetto, affermò: “L’emozione mi serrò la gola, sentendo da lui l’espressione [espace indicible] che era da anni il mio ideale, il programma e il traguardo della mia vita”. Quel contraccolpo del 1965 gli fu essenziale, aggiunse: “per aprire del tutto gli occhi sul mondo della mia anima. In questo senso, anche oggi sogno e vedo un po’ con gli occhi di quel grande maestro”18. L’incontro avvenne infatti in un periodo per lui cruciale: nel 1962 aveva concluso la tesi sui primi segni epigrafici cristiani e si era diplomato come scultore; approdato da poco a Pavia, nel 1959, aveva inoltre intensificato l’attività di artigiano-artista per suppellettili e arredi liturgici, già pensando alle chiese. Sotto la pressione di un’immaginazione e di una sensibilità molto allenate, l’incontro con Le Corbusier fu pertanto potente stimolo alla libera effusione del proprio mondo interiore. È noto che il progetto per il sito di Ronchamp fu, a metà del secolo XX, causa di grande e generale sconcerto. L’autore, fino ad allora protagonista di un razionalismo cartesiano per molti aspetti autoritario, chiamò la cappella rondebosse en creux, modellato scultoreo per scavo, e si ostinò, inascoltato, a segnalare due temi cristiani privilegiati: la croce di Cristo, detta “il testimone”, e la maternità della Vergine Maria. Congedando di colpo il tradizionale primato dell’istanza tipologica nel progetto di chiese e corrispondendo, nel contempo, alla riforma liturgica in fieri, la cappella, fusione di prestiti diversi, in sintesi, trasfigurante e quasi alchemica, con la sua emotiva e criptica bellezza scosse mondo cattolico e cultura laica.

Si chiese il teologo Hans Urs von Balthasar: “Ronchamp: perché è diventata un segno cosi importante per noi? […] Da dove viene tanta gioia e speranza in Ronchamp?”19. Sintesi di “immagini dello spazio felice” che “trascende lo spazio geometrico”, direbbe Bachelard20, essa fece vibrare in Ruggeri una sintonia innanzi tutto umana. Scattò forse, in questo nodo d’incandescenza spirituale anticipato già, ma con più tormento, dai padri domenicani Marie-Alain Couturier (1897-1954) e Raymond-Pie Régamey (1900-1996) de “L’Art sacré”21, la sua decisione di affrontare l’architettura, favorita dal capolavoro architettonico lecorbusiano implicato con la scultura e da una strana parentela tra l’indicibile senso del sacro del maestro svizzero e la sensibilità cristiana che Ruggeri coltivava in sé.

Fu l’occasione forse per l’emergere dell’interrogativo sul sacro che sfo- ciò, nel 1978, nella proposta dello spazio mistico con la quale il frate prese prudente distanza dal tema del sacro oggetto della storia delle religioni, molto dibattuto in Europa soprattutto a partire dai contri- buti di Mircea Eliade (1907-1986) dagli anni Cinquanta in poi. Poiché l’uomo è religioso “[…] quando pensa, quando mangia, quando lavora, quando ama, quando sta in famiglia, quando vive l’amicizia, quando soffre. Se è fedele al sacramento della vita è sempre religioso […]”22, carica di mistero divenne, per lui, ogni bellezza percepibile nella luce di una fede semplice, spoglia di preconcetti nei confronti della libertà dell’arte: questo è il centro, credo, dell’eredità che il frate lascia in riflessioni, arte, architetture.

Secondo fulcro tematico ruggeriano, che dovrà essere approfondito, è il perseguimento della realizzazione di chiese come unitari e potenti strumenti sensoriali, in risonanza con il corpo e la spiritualità umana entro le fibre del grande tessuto del mondo. Stupisce l’interna coerenza dell’allargarsi progressivo della produzione artistica di padre Costantino. Nato nel 1925 e morto nel 2007, ha attraversato gran parte del XX secolo assimilando tratti importanti di linguaggi d’avanguardia; ha fatto proprio tutto ciò che aveva sapore di genuina attualità, fosse del suo tempo o antico; è approdato all’interesse per l’architettura passando attraverso un meditato esercizio artigianale; si è prodigato con generosità in costruzione, modifica e completamento di edifici religiosi, dalle cappelle alle chiese parrocchiali. In una costanza di in- tenti subito individuati e sempre mantenuti.

La fiducia nella propria corporea sensibilità sinestetica, forse più tattile che visiva23 e solo all’apparenza povera di spessore concettuale, favorì il suo corpo a corpo, gioioso e carico di emotività, con i materiali. I suoi oggetti portano infatti l’impronta di una manualità oggi quasi scomparsa con il diffondersi dell’industrial design, peraltro non piccola gloria italiana ma sempre più dominato dalle sirene persuasive della strategia pubblicitaria. In decori e suppellettili – ad esempio nei tabernacoli che evocano la madia della casa contadina; nelle pissidi in forma di cestino del pane; nelle croci e nei vetri colorati in blocchi grezzi; nei robusti altari e amboni in marmo; nei morbidi bacini in pietra dei battisteri con acqua viva; nel prezioso uso dell’antico vetro soffiato – e nell’intero organismo architettonico, agglomerato sensoriale sempre diverso, egli affermò “il più di senso” con “un meno di ricercatezza materiale” secondo sensibile, persino naturale contiguità del corpo umano con le cose.

Si giunge per questa via al tema della francescana povertà raggiunta con essenzialità di mezzi e di segni, emersa in una sintesi architettonica in bilico tra spogliazione ed esultanza, tra povertà e gloria, di Dio ma anche dell’uomo, più precisamente del popolo dei semplici che non cessa di rivolgersi a Dio. Lo segnalò con estrema precisione l’amico Fabbretti quando scrisse:

Quella di Ruggeri è stata e continua a essere un’avventura di spirito, di fantasia e di manualità che può essere legittimamente riconosciuta per francescana. È infatti l’avventura della ‘spoliazione’. Diventata sempre più felicemente un nuovo ‘trionfo’ di Madonna Povertà24.

Autentica ‘spoliazione’ nella nudità creaturale, la sua arte restava tuttavia segnata da un’irrisolvibile tensione tra materia e spirito, poiché, proseguiva il confratello:

[…] quale dinamica d’arte, di poesia e fantasia ha mai potuto evitare i conti quotidiani con la contraddizione e l’ambiguità? E d’altronde, per contro, quale autentica opera d’arte non ha tratto proprio da questa misteriosa, penitenziale strettoia, la forza primaria della sua suggestione spirituale?25.

L’arte ruggeriana non poteva essere più precisamente ancorata al vivo ideale francescano; né essere più spregiudicatamente sottoposta alla prova dell’evangelica adorazione “in spirito e verità”, auspicata da molti nella prima stagione della riforma cattolica postconciliare, come riduzione ai minimi termini della corporea materialità di luoghi e riti. A mio parere, padre Costantino si tenne lontano da estremismi e ideologiche aridità perché aveva scoperto il filone aureo della bellezza – amata nella natura e negli uomini, soprattutto in quelli poveri, dal ‘giullare’ e penitente Francesco d’Assisi – nel non smaterializzato bensì densamente materico “ ‘quasi niente’ al quale l’artista dà la dimensione dell’infinito”26. La sua intenzione artistica, indifferente a un’utopica spiritualità, corrispose infatti alla logica dell’incarnazione:

Dobbiamo essere cauti – disse – a non tessere sofismi sulla decantata e incantante ‘povertà’. Povertà è essenzialità, eticità, esaltazione dello spirito. Anche l’oro è ‘povertà’, se usato nella sua verità. Certamente i materiali più semplici e meno costosi, sono anche i più espressivi. E chi non lo sa, dopo che Cristo si è incarnato e transustanziato in un frammento di pane? […] Le ‘cose’ sono poesia. Non trasformiamole in formule27.

Gli si può dunque riconoscere un imprinting profetico radicalmente cristiano, e in questo senso francescano, se si accetta che: “La profezia cristiana deve prefigurare una umanità nuova, non una società alternativa”, dal momento che: “Nel cristianesimo la verità di Dio si vede in un uomo e la verità di un uomo è la verità dell’uomo. Stare nello spazio di questo intreccio è l’impegnativa vocazione della Chiesa”28.

1 Ruggeri fece propria questa frase che un mendicante, in Pavia, scrisse sul manifesto della raccolta fondi per l’annuale giornata per le nuove chiese, in cui campeggiava il messaggio: “Dio cerca una casa da dividere con te”. In C. Ruggeri, L. Leoni, Spazi di luce, LDC, Torino 1996, p. 182.
2 Traggo questi dati da colloqui con l’architetto Luigi Leoni, suo collaboratore principale, ma anche da scambi con gli altri membri della Fondazione Frate Sole, concordi nel riconoscere, in questo processo, il vigore amico di una guida formativa entusiasmante.
3 G. Ferri, Il gesto della spoliazione. Costantino Ruggeri francescano e architetto, La Locusta, Vicenza 1980, p. 56.
4 Ivi, p. 57.
5 C. Ruggeri, in N. Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore. Genesi di un artista cristiano, Dies, Milano 2001 (I ed. 1990), p. 72.
6 Ivi, p. 20.
7 M.A. Crippa, Pittura, scultura e architettura nell’arte di padre Costantino Ruggeri, in “Rivista dell’Istituto per la Storia dell’Arte Lombarda”, 12, 2014, pp. 35-58; M.A. Crippa, Fra Costantino Ruggeri e il sapere dei segni cristiani, in “Rivista dell’Istituto per la Storia dell’Arte Lombarda”, n. 25, 2018, pp. 7-28.
8 G. Ravasi, L’incontro tra i fratelli per l’incontro con Dio nel tempo, in “Parametro”, marzo-aprile 1995, pp. 18-25.
9 G. Gresleri, Costantino Ruggeri o dell’alternati- va mistica, in Ruggeri, Leoni, Spazi di luce cit., I-X.
10 G. Trebbi, in Ruggeri, Leoni, Spazi di luce cit., pp. 18-19, senza titolo.
11 Le celle, testo di C. Ruggeri, La Locusta, Vicenza 1982.
12 C. Ruggeri, in Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., p. 69; ivi, per i Cenacoli pp. 67- Anche: I cenacoli, testo di C. Ruggeri, Dies, Milano 1985.
13 S. Maria della Gioia, testo di G. Fallani, Arti Grafiche Barlocchi, Quinto de’ Stampi (Milano) 1981.
14 C. Ruggeri, in Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., pp. 74-79.
15 Vescovo che ha dato importanti contributi su problemi di arte sacra e di tutela dei beni culturali ecclesiastici.
16 Per l’analisi dei temi biblici cfr. G. Ravasi, In una tenda di luce, in Ruggeri, Leoni, Spazi di luce cit., pp. 138-145.
17 Scrisse Ando, richiamando la sua Chiesa della luce: “In Occidente lo spazio sacro è trascendente, mentre ritengo che in qualche modo esso debba venir posto in relazione con la natura […] trasformata dall’uomo […] architettonicamente mutata”, in questo senso astratta. In Ruggeri, Leoni, Spazi di luce cit., 295.
18 Ruggeri, Soltanto un fiore, cit., p. 73.
19 Si veda F. Caussé, M.A. Crippa, Le Corbusier. Ronchamp. La cappella di Notre-Dame du Haut, Jaca Book, Milano 2014.
20 G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1975, pp. 25, 73; anche M.A. Crippa, Provocazioni della materia in architettura: dialoghi con Bachelard, in F. Bonicalzi et alii, Bachelard e le ‘provocazioni’ della materia, Il Melangolo, Genova 2012, pp. 327-333, e Eadem, Avvicinamento alla storia dell’architettura. Racconto, costruzioni, immagini, Jaca Book, Milano 2016.
21 Si veda M.-A. Couturier, Un’ avventura per l’arte sacra, a cura di M.A. Crippa, Jaca Book, Milano 2012.
22 Dall’intervista di N. Fabbretti, in “Gazzetta del popolo”, 27 dicembre 1979.
23 Sul tema J. Pallasmaa, Gli occhi della pelle. L’arte e i sensi, Jaca Book, Milano 2007.
24 N. Fabbretti, Lotta con l’angelo, in Ferri, Il gesto della spoliazione cit., pp. 8-9.
25 Ivi, p. 9.
26 P.C. Ruggeri, Incontro con padre Costantino Ruggeri, il 2 giugno 1979 a Pavia, nella sua officina, in Ferri, Il gesto della spoliazione cit., p. 57.
27 Ivi, p. 54.
28 G. Zanchi, Rimessi in viaggio. Immagini di una Chiesa che verrà, Vita e Pensiero, Milano 2018, 157.

Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra

“Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra”1
Giorgio Azzoni

Oltre. Metafore del sacro

Le vetrate di frate Costantino Ruggeri esprimono forza e profondità di un’arte conforme allo spirito di rinascita culturale, civile e religiosa della Chiesa pre e postconciliare, oltre che intimamente francescana nella gioiosa essenzialità di figure che lodano il Creato e il Creatore. Esse attivano “un processo redentivo che ricongiunge il mondo odierno a quello dell’innocenza primitiva e anticipa il mondo della bellezza eterna”2. Opere contemporanee, sempre sono concepite in dialogo con la mobile luce solare e con gli spazi, che contribuiscono a rendere luoghi del sacro, e con gli ambienti della liturgia, cui partecipano. Non è pertanto possibile una loro lettura estrapolata dalla collocazione e dalle relazioni che istituiscono con il contesto entro cui sono inserite3.

Una prima fase di ricerca sulle capacità espressive del vetro vide Ruggeri realizzare non tanto estese superfici trasparenti e colorate, destinate a diventare la sua produzione più apprezzata e diffusa, ma pannelli di cemento con cristalli incastonati. Tale modalità operativa fu inaugurata nella grande croce collocata nella Madonna dei Poveri, chiesa realizzata nel 1954 dagli architetti Figini e Pollini in un quartiere periferico di Milano. La frequentazione e l’amicizia con Luigi Figini fu esperienza fondamentale nella formazione artistica del giovane frate, nel 1951 ordinato sacerdote proprio nel capoluogo lombardo: un dialogo denso di conseguenze, anche perché Figini, ricordava Ruggeri, “presto mi volle anche suo consulente liturgico”4.

Appesa nel presbiterio della chiesa, la grande croce in calcestruzzo e vetri colorati di Murano rinvia nell’installazione alle croci lignee romaniche e gotiche, nella struttura alle croci gemmate del primo Medioevo. Affatto imitativa, è però opera coraggiosamente moderna. I bracci in calcestruzzo (come la chiesa) sono trafitti e contornati da cristalli grezzi: alcuni incastonati, altri aggettanti lungo il perimetro. Quelli incastonati appaiono in prevalenza materia opaca, come corpo di Cristo che tragicamente muore. Attraversati e vivificati dalla luce, quelli aggettanti formano invece un’aureola risplendente, figura di Risurrezione5.

La croce di Santa Maria dei Poveri fu, nel percorso artistico di Ruggeri, opera decisiva. Composizione non figurativa, pervasa di francescana semplicità e ancorata a forme del cristianesimo primitivo, per l’uso dei materiali e per il rapporto istituito con lo spazio della chiesa fu antecedente concettuale di successivi arredi liturgici e di pareti, cui i cristalli colorati conferiscono quell’entitas positiva che san Francesco riconosce in tutto il Creato.

Fra Costantino Ruggeri, disegno, da Idem, Stenografie dell’anima, Piemme, Casale Monferrato 1991, p. 60

Tabernacolo nella cappella della Casa di riposo O. P. Delbarba, Adro (Brescia).
© Foto Giorgio Azzoni

Pietre “viventi” (1Pt 2,4-5), i blocchi grezzi e luminosi incastonati in ruvidi muri compongono non Arte povera ma arte ispirata alla paupertas francescana, una lingua di “‘segni’ poveri per fedeli di ‘periferia’, ma segni veri, alieni da ogni trionfalismo religioso e liturgico, e per questo intensi e immediati”6.

Dai primissimi anni Sessanta Ruggeri indagò dunque le potenzialità visive ed espressive di cristalli colorati inclusi nel calcestruzzo diversamente consegnati alla luce, con l’intento di renderli protagonisti attivi dello spazio liturgico. Per sperimentarne l’efficacia, realizzò prove e modelli lavorando da artigiano. Nazareno Fabbretti così lo descrive:

Per terra, telai di ferro, grezzi, losanghe, a rombi, a triangoli irregolari. Il frate, calcinoso e con le vesciche alle mani, monta di sua mano i cristalli colorati sul nero cemento fresco, e tutto prende figura lirica dentro la figura geometrica dei telai. Stanno nascendo vetrate inconsuete che desteranno scalpore. Altre sono già nate, e brillano sulle pareti della cappella del Seminario di Mantova e del Seminario francescano di Varese, e nella chiesa di Pioltello, presso Milano7.

L’esito forse più sorprendente di tali sperimentazioni fu la parete absidale di Sant’Adele a Buccinasco, sorta nella periferia milanese tra il 1964 e il 1968 e definita dagli stessi progettisti chiesa-officina. Ruggeri vi realizzò e posizionò anche altare e tabernacolo, che infatti istituiscono con il fondale un’unità di forma e contenuto. Colorato di nero, il muro è punteggiato da fori che interamente lo trapassano catturando la luce retrostante. Incastonati in tali spiragli, blocchi vitrei colorati e informi divengono visivamente incandescenti e, poiché la trasparenza palesa le minuscole bolle d’aria intrappolate nella materia, sembrano organismi viventi. Incorniciati da ampie strombature che talora li organizzano in insiemi, formano costellazioni colorate e, al centro, una doppia aureola luminosa: quella interna, circolare, contorna il tabernacolo (a muro, originariamente trasparente); quella esterna, ellittica, incornicia l’altare. Le stelle di vetro si ordinano dunque a ornare l’Eucarestia custodita e celebrata, individuando in Cristo l’identità asso- luta di movimento (dynamis) e centro (stasis). Sublimando materia e colore, la luce conferisce loro inaspettata bellezza e, insieme, valenza ‘metafisica’ o metaforica sacralità. La loro luminescenza pare extra terrena. La nera parete stellata suggerisce il senso di infinito che si avverte scrutando il cielo notturno.

Questa e altre opere dei primi anni sessanta8 maturarono in dialogo con l’arte di Lucio Fontana (con cui Ruggeri aveva instaurato un rapporto artistico e personale) quali rielaborazioni in ambito liturgico dei Concetti spaziali. Nel confronto con le più innovative espressioni dell’arte contemporanea milanese (i cicli di Buchi e di Pietre di Fontana, le Spirali di Roberto Crippa) l’artista francescano avviò una sintesi di carattere estetico e tematico volta a rispondere e corrispondere alle esigenze di rinnovamento anche artistico che percorrevano la Chiesa negli anni di preparazione e di attuazione del Concilio Vaticano II.

In tale direzione, egli riformulò in chiave cristiana le ricerche artistiche che miravano a superare la tradizionale figurazione bidimensionale (anche con l’utilizzo di terre, pietre e vetri) dando forma a un immaginario di spazi finiti e infiniti. L’oltre, che per Fontana era cosmico (infinito o vuoto), diviene per Ruggeri l’inesprimibile, l’universo colmo di Dio. Anche il procedimento di Fontana (“Io buco, passa l’infinito da lì, passa la luce, non c’è bisogno di dipingere”9) fu risignificato: infinito e luce divengono infatti manifestazioni di Dio.

Cercherò il mio Dio al di là delle stelle10

Alla fine degli anni Sessanta, abbandonati i buchi luminosi, Ruggeri realizzò le sue prime superfici in vetro antico soffiato legate a piombo.

In Sant’Antonio a Chiavari (1969) le immagina scorrere continue oltre le preesistenti bifore ogivali, come se ciascuna inquadrasse il medesimo paesaggio-cielo. Accanto a figure astratte (forme e reticoli di ortogonali) compaiono sintetiche citazioni di elementi riconoscibili, primo nucleo di un vocabolario di simboli destinato progressivamente ad ampliarsi: “poema risolto in figurazioni rigorose, essenziali, e tuttavia ricche di straordinaria fantasia: luna, stelle, fiori, animali, luci, pochissime ombre: tutta la vita dell’universo adunata, in letizia, attorno all’altare, vita piena e totale che irrompe nel tempio a partecipare al mistero eucaristico”11.

Nelle bifore dell’abside le forme si diradano e domina un bianco luminoso. Sant’Antonio segnò una svolta decisiva, poiché Ruggeri iniziò a concepire le vetrate come laude figurata, espressione di una gioiosa interpretazione del Creato. Sembra, in questa fase, ispirarsi a ricerche dell’astrattismo europeo e a Paul Klee non solo per alcune soluzioni formali (che subito abbandonerà) ma per la volontà di ricreare mondi invisibili che stanno dentro e oltre il visibile. Scrive Klee nei suoi Diari: “Tutto quello che avviene non è che simbolo. Quello che noi vediamo è proposizione, possibilità, espediente. La verità autentica, alla base, in principio è invisibile”. Compito dell’artista è, appunto, rendere visibile l’invisibile.

Paolo VI, rivolgendosi nel 1964 agli artisti, declinava tale missione in senso cristiano, affermando:

Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità12.

Prerogativa dell’arte, aggiungeva il pontefice, è di rendere “accessibile e comprensibile il mondo dello spirito – ma nel contempo – di conservare a tale mondo la sua ineffabilità, il senso della sua trascendenza, il suo alone di mistero, questa necessità di raggiungerlo nella facilità e nello sforzo allo stesso tempo”13.

Ruggeri rispose all’appello del papa con accresciuto senso di responsabilità in quanto francescano e sacerdote, perseguendo un’arte contemporanea capace “di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori”14 per renderli accessibili e comprensibili, ma conservandone, appunto, l’ineffabilità. Non adottò forme astratte ma figure dedotte dal mondo sensibile che tuttavia, composte in paesaggi mai descrittivi o narrativi, rimandano a un altro e a un oltre. Dichiarava infatti: “Ma guai a fermarsi alla ‘rappresentazione’. Bisogna entrare nella visione, cioè nei ritmi e nelle forze vitali, nel loro stesso essere”15.

Rimeditò i segni che negli anni precedenti l’avevano attratto: le incisioni rupe- stri preistoriche della Valle Camonica (rielaborate negli studi pittorici degli anni Cinquanta) e i simboli epigrafici delle catacombe romane (studiati per la tesi di laurea a Brera). Memore della semplice gioia coloristica dei paesaggi e dei giardini degli acquerelli di Klee, affascinato dalla dinamica libertà delle bianche colombe nelle opere grafiche di Braque e di Matisse e dall’ingenua fantasia delle figurazioni sospese di Chagall, costruì in pochi anni un linguaggio di forme e composizioni dai tratti originali. Fu certamente illuminante il clima coloristico, intimo e riservato, delle vetrate di Matisse nella cappella del Rosario di Vence, di cui volle però oltrepassare il (pur delicatissimo) decorativismo per essere più incisivo, come la sua energia vitale e artistica richiedeva. Avvertì inoltre la necessità di correlare i propri interventi alla conformazione ambientale, giungendo a concepire gli Spazi mistici e a progettare, con l’architetto Luigi Leoni, le chiese.

Il suo vocabolario di forme trovò esemplari paesaggi nelle vetrate realizzate dalla seconda metà degli anni Sessanta: composizioni di lastre colorate fissate a piombo, talora intere pareti, in grado di esaltare pienamente la forza espressiva della luce.

Così, per esempio, nella chiesa dei Santi Angeli Custodi a Milano, di cui realizzò anche il battistero (con blocchi di cristallo incastonati alle pareti). Diversamente da Matisse nella cappella di Vence, non si adeguò alle sequenze di aperture verticali ripetendo un motivo decorativo concluso, ma realizzò composizioni continue e trasversali, come visioni che le finestre inquadrano. Le progettò con attente verifiche16 e, per raggiungere sintesi formale e compositiva, adottò nei bozzetti di studio una tecnica analoga a quella dei papiers gouaches découpés del maestro francese.

Il complesso e non sempre facile programma iconografico sviluppa il tema del contrasto tra male e bene, tra morte e vita, tra buio e luce: dalle tenebre sorge il sole, dalla terra brulla un piccolo fiore; di fronte alla bestia dell’Apocalisse vola una candida colomba. La croce e la corona di spine (entrambe rosso sangue) donano la Redenzione, visualizzata da una fresca linea azzurra che attraversa e unifica le scene. Agli angoli dei due tiburi forme e colori evanescenti alludono alla Gerusalemme celeste17.

Fra Costantino nello studio con un campione di vetro soffiato
@ Foto Archivio Fondazione Frate Sole Pavia

Molteplici e fitte nelle vetrate più antiche, nel corso degli anni le figure si dilatano sino a diventare rade presenze, di forte intensità cromatica, su profondità blu e azzurre attraversate dalla variegata e sottile trama della struttura in piombo. Nelle amplissime pareti in cristallo del grande santuario romano del Divino Amore (1998), dove ogni barriera tra interno ed esterno, tra architettura e spazio, tra orizzonte reale e orizzonte celeste è revocata, prevalgono un sole rosso con chrismon stilizzato e un grandioso sole arancio, una Croce Rossa su un’eterea nuvola bianca e le parole (rarissime in Ruggeri) “Ave Maria”.

Paesaggi di simboli

Il Cantico delle creature di san Francesco fu per Ruggeri tema continuo e costante, oltre che fondamento etico e riferimento estetico.

Nelle vetrate dei primi anni Sessanta inserì prevalenti riferimenti ai versi iniziali: a “lo frate Sole” e a “sora Luna e le Stelle”; nelle vetrate di Chiavari aggiunse “Aree e Nubilo e Sereno”, “nostra Madre Terra, la quale ne sostenta e governa, e produce diversi fructi con coloriti fiori ed erba” e “sor Aqua, la quale è molto utile e umile e preziosa e casta”18. Come nel Cantico è assente l’uomo, spettatore che nelle creature loda il Creatore.

“Nella mia concezione tutto è ‘sacro’, tutto è ‘mistico’ nella misura in cui non esclude il ‘naturale’, il preesistente”19, affermava Ruggeri. Per “aiutare insomma l’uomo a intuire o trovare Dio” 20, ovunque e in letizia, egli evoca cieli, terra e acque abitati da sole, luna, stelle, nuvole, uccelli e fiori, le cui forme accese dalla luce suscitano stupore e gioia. Accostamenti inattesi, discrepanze di proporzione, anomalie o intensificazioni cromatiche e contraddizioni spaziali suggeriscono che il senso di tali presenze non possa esaurirsi nella composizione di un paesaggio, ancor più per l’irruzione di croci e lingue rosse, oppure asterischi e tau. Sono, invece, paesaggi di simboli e il simbolo “dà a pensare”21; anzi, con Cassirer22, è l’organo essenziale del pensiero e continuamente interroga. Inoltre “In definitiva, il simbolo è indispensabile all’uomo per compiere la propria esperienza del sacro”23.

I simboli delle vetrate di Ruggeri si ispirano al grande codice della Bibbia24; sono metafore della condizione umana che parlano un linguaggio universale, antico e contemporaneo, non circoscrivibile alla sola dimensione estetica. Diversamente dai molti segni che, nell’arte del Novecento, sono nati da sensibilità individuali e biografiche, attingono a un patrimonio comune per restituire un senso del mondo cristiano e francescano.

Proprio tale orizzonte spiega l’accostamento di elementi altrimenti paratattici (per esempio la corona di spine o la croce anteposte al sole) e i ricorrenti contrasti tra aree scure e altre luminose, tra esseri tenebrosi e la bianca colomba. Le composizioni non nascondono conflitti e lacerazioni ma li risolvono in una prospettiva escatologica che nasce dalla speranza nella Redenzione quale ultima unione, anche degli opposti. Ruggeri, infatti trova “il filo d’oro che lega insieme i simboli biblici considerando anche il fatto che essi hanno il loro vertice proprio in Cristo, il massimo ‘simbolo’ possibile: egli, infatti, unisce in sé i due poli estremi e tutti i significati possibili, quelli dell’umanità e della divinità”25.

Simbolo potente e ragione stessa della vetrata è la luce. Il cristiano è “figlio della luce” (1 Ts. 5,5; Gesù affermò “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” [Gv 8,12]. Magistralmente intercettata come nelle cattedrali gotiche, la luce che Suger definiva mirabilis et continua è non solo indispensabile operatore ma anche strumento espressivo, poiché “L’uomo contemporaneo ama la luce, è in cerca della luce. E la luce non ha confini; è inesauribile come quella dell’anima”26. A prescindere dalle figurazioni che attraversa e accende, essa conferisce agli interni (prevalente- mente semplici) una dimensione sacrale, poiché “trasforma tutti gli ambienti in ‘spazi mistici’, dà forma, immensità e dolcezza insieme”27. Per descriverne l’irradiazione che trasfigura gli spazi, Ruggeri aggiungeva:

Hai mai osservato il cielo all’aurora? Si fa immenso, davvero infinito. […] E in quel momento di luce e di mistero la vetrata lo “rapisce” all’esterno del tempio, ve lo introduce naturalmente, come una dimensione totale, divina oltre che umana. Non ti dico che cosa succede quando il disco del sole appare radioso e beato all’orizzonte. Dai finestroni si spalanca il cielo e irrompe un fiume di luce che ruscella sul pavimento, mentre le ombre fuggono negli angoli e non le vedi più, i pilastri e le colonne si accendono, si alleggeriscono, diventano trasparenti, e hai l’impressione che la chiesa stessa vada in alto, sollevata da un’altra marea di colori. Di notte è la luna a condurre la danza28.

Attraversando le vetrate, la luce copre di un mantello colorato superfici, arredi, suppellettili e persone, proiettando macchie mobili e informali che per nitidezza, forma, dimensione e collocazione mutano con il variare delle ore, delle stagioni e del tempo meteorologico. Chi entra o sosta nella chiesa ne è profondamente coinvolto sia emotivamente che fisicamente, quando direttamente colpito dalla proiezione luminosa. Lo spettacolo di colori accesi (nel vetro) e riflessi (dal vetro) produce prima di tutto una gioia dei sensi che diviene preghiera. La luce è, inoltre, valorizzata da calcolati contrasti di qualità (tra colori puri e terziari, caldi e freddi, chiari e scuri, trasparenti e opachi) che la oppongono alle tenebre, quale figura della vittoria del bene sul male, della vita sulla morte.

Fra Costantino nello studio mentre sceglie tra i campioni di vetro colorato.
@ Foto Archivio Fondazione Frate Sole Pavia

Il luogo più ricco di luminosità è, per Ruggeri, il battistero, poiché il battesimo è il sacramento della luce e i battezzati ne sono ‘illuminati’29. Egli ne orienta l’ambiente e le vetrate in modo da raccogliere la prima luce del giorno; spesso la conduce sull’acqua della vasca. I battisteri stessi diventano talora ‘faro’ che schiarisce le chiese, quando preesistenti e ombrose.

Soggetto immancabile delle vetrate è il sole: grande disco giallo o arancione che spesso si oppone a superfici oscure. In alcune è anche bianco: l’ostia eucaristica.

Indispensabile sorgente di vita, espressione del movimento universale e della ciclicità del tempo, in tutte le religioni è simbolo divino30; anche per san Francesco, che lo dice “bello e radiante cun grande splendore” e aggiunge “de te, Altissimo, porta significazione”31.

Nel canto XI del Paradiso (v. 50) Dante paragona Francesco stesso a un sole che, come Cristo, nasce a Oriente. Tommaso da Celano annotava: “La presenza o anche la sola fama di san Francesco sembrava davvero una nuova luce mandata in quel tempo dal cielo a dissipare le caliginose tenebre che avevano invaso la terra, così che quasi più nessuno sapeva scorgere la via della salvezza”32.

Sempre nella Vita Prima, così Tommaso da Celano descriveva il santo: “Quando mirava il sole, la luna, le stelle del firmamento, il suo animo si inondava di gaudio”33. Il rimando è a Isaia (9,2) il quale, celebrando Dio come luce che illumina “coloro che abitavano in terra tenebrosa”, dice: “Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia”. Lo stesso gaudio producono i cieli vetrati di Ruggeri, dove spesso al sole si accostano “sora Luna e le Stelle”, che il Cantico dice “clarite e preziose e belle”34.

Tra gli astri, particolare valenza simbolica ha sempre assunto la stella del mattino che luminosissima compare prima dell’alba e annuncia il nuovo giorno. Gesù in Apocalisse (22,16) si dichiara “la stella radiosa del mattino”35; la Liturgia pasquale lo celebra come “la stella del mattino, quella stella che non conosce tramonto”. In 2Pt 1,19 si paragona la parola dei profeti “a lampada che brilla in un luogo oscuro finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori”. La stella del mattino è, nuovamente, figura di Francesco, che “splendeva come fulgida stella nel buio della notte e come luce mattutina diffusa sulle tenebre”36. Ruggeri la raffigura a cinque punte, grande e gialla, distinta e antecedente rispetto agli altri elementi in quanto anticipa il giorno. Tratta dalla Vita seconda di Tommaso da Celano, la seguente visione dell’anima di Francesco che sale in cielo pare la didascalia dei suoi cieli vetrati: “Era come una stella, ma con la grandezza della luna e lo splendore del sole, e sorvolava la distesa delle acque trasportata in alto da una nuvoletta candida”37. L’acqua, non sempre distinguibile dal cielo per il blu compatto e intenso, introduce nelle vetrate un orizzonte inferiore che dialoga con l’immensità celeste.

Nei battisteri Ruggeri ne enfatizza la concreta presenza prevedendo ampie vasche (quando possibile con flusso continuo) esposte alla luce: nelle chiese del Sacro Cuore di Abano Terme, del Tabernacolo a Genova e dei Santi Clemente e Guido in Prato Centenaro a Milano queste si accostano alla vetrata, creando continuità tra le forme colorate accese sulle pareti e i loro riflessi, che l’acqua rende più evanescenti e mobili.

Altra figura ricorrente è la colomba: in volo, si staglia libera sopra ogni cosa e sovrasta il male. Negli ambienti di piccole dimensioni occupa talora un settore autonomo, spesso un tondo che funge da rosone. Enorme, nella controfacciata di Sant’Alessandro a Pavia (dove è accostata a un delicato tau azzurro, nel bozzetto una nuvola) domina il grandioso cielo blu per sconfiggere le tenebrose forze del male. Spesso gli si contrappone un nucleo scuro; nella chiesa degli Angeli Custodi a Milano la bestia di Apocalisse. Simbolo biblico di bellezza, di prontezza e di pace è, soprattutto, figura dello Spirito Santo che scende su Gesù dopo il battesimo. In relazione a tale episodio, Ruggeri la inserì anche nelle vetrate dei battisteri; in quello della chiesa di San Basilio a Milano compare in stormo. Per Ruggeri l’uomo deve “possedere ‘gli occhi della colomba’ per vedere il fremito del volto di Dio”38.

La colomba è, inoltre, figura dell’anima dei francescani39 che “Dimentichi delle cose passate, si protendono sempre in avanti coi passi mai stanchi, e volano come le nubi o come le colombe verso le loro colombaie, premunendosi con ogni diligenza e cautela perché non vi entri la morte”40. Candidi e liberi, si muovono infatti per il mondo attraversando ogni con- fine per portare pace e salvezza.

Altro segno presente nelle vetrate è il tau. Ultima lettera dell’alfabeto ebraico, designa Dio sostituendone l’impronunciabile nome (Sap 14,21) e, analogamente all’ultima lettera dell’alfabeto greco (l’omega) è riferimento alla perfezione. Per la forma di croce commissa è simbolo della crocifissione, che Ruggeri raffigura spesso di colore rosso. Con il tau san Francesco apriva e siglava le lettere. Narra la Leggenda Maggiore:

E in realtà il santo nutriva grande venerazione e affetto per il segno del Tau. Lo raccomandava spesso nel parlare e lo scriveva di propria mano sotto le lettere che inviava, come se la sua missione consistesse, secondo il detto del profeta, nel segnare il Tau sulla fronte degli uomini che gemono e piangono, convertendosi sinceramente a Cristo41.

In questa accezione è segno concreto di salvezza, poiché il Signore lo fece apporre su coloro che dovevano essere preservati dal castigo ordinando “Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme, e segna una tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono” (Ez 9,4).

Il sacrificio salvifico di Cristo è evocato soprattutto dalle grandi croci42 e da lingue rosse che irrompono tra gli elementi (del male) aprendo un varco alla vita e alla speranza43. Analogo significato assumono i fiori e i germogli che talora sbocciano entro contesti scuri, immagine della vita che rinasce.

Simbolo cristologico è, infine, il chrismon (chi rho), emblema di Risurrezione e del trionfo del cristianesimo. Ruggeri lo traduce in una sintetica stella a sei raggi, o a otto se combinato con la croce, quasi un asterisco di colore prevalentemente rosso, che brillando come un astro domina i cieli, sovrapponendosi ad altri elementi. Le grandi vetrate di Ruggeri agiscono dunque, con intelligenza artistica e liturgica, sul fruitore (e sul fedele) a livelli diversi. Producendo gioia dei sensi, contribuiscono a creare chiese belle e accoglienti entro cui ciascuno (credente o non, cristiano o non) può avvertire la presenza del sacro e raccogliersi in riflessione o preghiera. Secondo Ruggeri chi entra negli spazi sacri “deve infatti sentirsi nella casa del Padre, in un luogo pacificato e felice”44. Sono, inoltre, alto e sintetico ornamento alla liturgia ma anche ‘teca’ luminosissima di supporto alla Parola.

Mettono poi in scena paesaggi di simboli che parlano un linguaggio universale, attingendo a un immaginario comune di segni archetipi che oltrepassa e comprende i confini temporali, geografici e religiosi. Concezione della Natura e della Storia sono però cristiani e indicano in Cristo la via della Salvezza.

Emerge infine una forte matrice francescana, non solo nella positiva considerazione del Creato, ma anche nella citazione di un immaginario specifico, riferito a san Francesco e alla missione del suo Ordine. La stessa idea di bellezza è mediata dal santo, come suggeriva Ruggeri: “Ma la bellezza sarà tanto bella da rendere necessario il fatto di garantirla a tutti, se non saremo capaci di guardarla con gli occhi di San Francesco, povero di tutti i consumi, ricco di tutti i beni”45.

1 Apocalisse 21,1. Nelle vetrate di Ruggeri la Gerusalemme celeste è continuamente suggerita ed evocata. Nel riferimento a fonte biblica, il presente testo adotta le convenzioni di citazione cattolica in uso.
2 S. Nicolosi, Medioevo francescano, Borla, Roma 1983, p. 50.
3 In considerazione di tale legame con il contesto, questa indagine è stata preceduta dalla visita di numerosi siti (soprattutto lombardi e veneti) e (ove possibile) dal dialogo con testimoni. Poiché i casi citati sono esemplificativi di un repertorio ricchissimo, distribuito in molte regioni italiane e non sempre facilmente accessibile, si affida ad ulteriori studi il proseguimento della ricerca.
4 Cfr. C. Ruggeri, in N. Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore. Genesi di un artista cristiano, Marietti, Città di Castello (Perugia) 1990, p. 43.
5 Ruggeri realizzò, in molte occasioni, croci bifacciali che presentano il Crocifisso sul verso e, sul recto rivolto ai fedeli, una Risurrezione astratta. Li denominò Croci gloriose, rifacendosi agli esemplari altomedievali che, oltre al sacrificio, rievocavano la parusia, presentando il mistero della croce nell’unità dei due aspetti di morte e risurrezione. Il riferimento tipologico è alle croci gemmate medievali, di cui due preziosi esemplari si conservano a Brescia, vicino al paese natale Adro: la Croce di Desiderio (IX secolo) in San Solario presso il Monastero di Santa Giulia (ora Museo della città) e la Croce del Campo (XI secolo) in duomo vecchio.
6 N. Fabbretti, Povertà e bellezza nella chiesa di S. Adele, in “Parrocchia di S. Adele” in Buccinasco, p. 3, presso Archivio Fondazione Frate Sole, Pavia.
7 N. Fabbretti, Un frate ha scoperto sulla luna i segni della sua stessa arte, in “Il Giornale d’Italia”, 29. 30 settembre 1964, presso Archivio Fondazione Frate Sole, Pavia.
8 Soluzioni analoghe si trovano nella chiesa di Sant’Anselmo Vescovo di Lucca a Malcantone di Sermide (Mn), nella chiesa del Seminario francescano di Figline Valdarno (Fi) e nel battistero della chiesa dei Santissimi Angeli Custodi di Milano.
9 C. Lonzi, Autoritratto, De Donato editore, Bari 1969, p. 170.
10 P. Klee, Poesie, Abscondita, Milano 2000, p. 81.
11 N. Fabbretti, Finestre su Dio e sull’uomo, in “Il Santo. Periodico del santuario di S. Antonio a Chiavari”, febbraio 1970, pp. 11-12, presso Archivio Fondazione Frate Sole, Pavia.
12 Paolo VI, Omelia della Messa degli artisti nella Cappella Sistina,7 maggio 1964,in https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/homilies/1964/documents/hf_p-vi_hom_19640507_messa-artisti.html.
13 Ibidem.
14 Ibidem.
15 Cfr. C. Ruggeri, in Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., p. 130.
16 Molti studi, collages colorati e modellini tridimensionali con carta e vetro colorato per verificare la reazione delle composizioni artistiche con la forma dello spazio destinato ad accoglierle, sono conservati presso la Fondazione Frate Sole di Pavia.
17 Il tema ritorna anche nelle vetrate della lanterna della chiesa di Santa Maria a Darfo (Bs) e, nel presbiterio della chiesa di San Bernardo di Chiaravalle a Roma.
18 Francesco d’Assisi, Il Cantico delle creature, in Fonti Francescane, a cura di E. Caroli, Edizioni Messaggero Padova, Padova 1996, (in seguito, FF.), p. 178.
19 Oltre vent’anni di serio impegno. L’intervento di padre Costantino Ruggeri, in “L’Avvenire”, 28 maggio 1978, p. 7. presso Archivio Fondazione Frate Sole, Pavia.
20 Ibidem.
21 P. Ricoeur, Il simbolo a pensare, Morcelliana, Brescia 2002.
22 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. 1 (Il linguaggio), La Nuova Italia, Firenze 1996, 20.
23 J. Ries, Simbolo. Le costanti del sacro, Jaca Book, Milano 2008, p. 2.
24 G. Ravasi, Parlava loro in parabole. I volti diversi del simbolo secondo la Bibbia, in Fra C. Ruggeri, Stenografie dell’anima. Simboli epigrafici delle catacombe, Piemme, Casale Monferrato 1991, pp.145-166.
25 Idem (a cura di), Presentazione all’edizione italiana di M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici [Monaco 1987], Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990, p.VII.
26 C. Ruggeri, in Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., p. 81.
27 Ivi, p.121.
28 Ivi, pp. 121-122.
29 Questo lavacro si chiama ‘illuminazione’, poiché coloro che comprendono queste cose sono illuminati nella mente. E chi deve essere illuminato viene lavato nel nome di Gesù Cristo, crocifisso sotto Ponzio Pilato”. In Giustino, Apologia 1, Il battesimo, LXI, 8.
30 J. Ries, Il sacro nella storia religiosa dell’umanità, Jaca Book, Milano 1981, nota 26, p. 95.
31 Francesco d’Assisi, Il Cantico delle creature, in FF., p. 178.
32 Tommaso da Celano, Vita Prima, cap. XV, in FF., p. 441.
33 Ivi, cap. XXIX, p. 474.
34 Francesco d’Assisi, Il Cantico delle creature, in FF., p. 178.
35 Anche Ap 2,28.
36 Tommaso da Celano, Vita Prima, cap. XV, in FF., p. 442. L’immagine, ispirata alla Bibbia (cfr. Sir. 50,6-7) e alla liturgia, fu tema del Sermone di Gregorio IX in occasione della canonizzazione di Francesco.
37 Tommaso da Celano, Vita seconda, cap. CLXIII, in FF., p. 727.
38 C. Ruggeri, in Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., p. 71.
39 C. Frugoni, Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica di Assisi, Einaudi, Torino 2015, pp. 333-337.
40 L’Ordine e la predicazione dei frati minori, in “Historia Occidentalis”, 1. II, c. 10, Cronache e altre testimonianze non francescane, in FF., 1911.
41 Bonaventura da Bagnoregio, Leggenda maggiore, in FF., pp. 867-868.
42 La più possente si trova nella controfacciata della chiesa di San Paolo in San Rocco a Palazzolo sull’Oglio (Bs).
43 Di grande e drammatico impatto è la rossa colata di sangue che nasce dal sole nella vetrata della chiesa del Sacro Cuore di Abano Terme (Pd) e che colpisce la montagna, fertilizzandola, nella cappella delle Clarisse a Bienno (Bs).
44 C. Ruggeri, in Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., p. 123.
45 Ivi, p. 107.

Una bellezza testimone di fede

Fra Mario Favretto, Ministro Provinciale

Quel sole giallo che si staglia nel blu intenso della grande vetrata e che si specchia nell’acqua del fonte battesimale della chiesa San Dionigi a Milano è un’immagine che porterò sempre impressa nei ricordi per l’effetto che ha avuto in me dal primo momento che ho visto quest’opera. È lo stesso effetto che ho avvertito davanti agli affreschi a tinte pastello, che raffigurano san Francesco e i primi Frati in modo del tutto nuovo e originale, nel classico convento di Busto Arsizio. Uguale emozione ho provato davanti e dentro la chiesa progettata e costruita in pietre e legno a Nyakai in Burundi.

Davvero l’approccio all’opera di padre Costantino Ruggeri ti prende e penetra dentro il tuo animo lasciando una traccia indelebile. Mi sono domandato: “perché?”, consapevole che emozioni simili si provano davanti a un’opera d’arte quando percepisci d’essere raggiunto e penetrato da qualcosa di indefinibile che in qualche modo, balbettando, riesci a esprimere con una parola: bellezza.

Alla domanda sul perché le opere di padre Costantino provocassero in me questo effetto, mi sono dato la seguente risposta. Perché i colori e le forme di una vetrata o di un affresco da cui ti lasci avvolgere, non costituiscono una curiosità da soddisfare o una vista da accontentare, ma ti creano sul momento un’esperienza. Davanti a una vetrata di Costantino avverti che stai facendo l’esperienza della luce che viene dentro di te per trasmetterti l’energia e l’armonia di qualcosa di nuovo, di insolito, di inedito. Sì, ammetti a te stesso che stai facendo l’esperienza della creazione, cioè di percepire la sorpresa e il piacere di qualcosa che è appena stato creato e che ti viene offerto come primizia.

Attraverso quei colori, quelle composizioni sempre originali, attraverso gli effetti mai scontati, viene a te e ti penetra l’idea di chi ha pensato e creato quell’opera; vengono in te i sentimenti che accompagnavano l’artista mentre esternava il tormento di dover cavar fuori qualcosa di intimo per farne parte con tutto il creato. Ma non c’è solo l’animo traboccante e tormentato di un uomo, frate, artista francescano che filtra dalle sue opere. Non ti senti raggiunto solo dal suo animo e dal suo genio, bensì da qualcosa che supera le sue e le tue facoltà di esprimerti: questo qualcosa, che non è di tutti gli artisti, è la fede. Sì, dalle opere di Costantino è inevitabile cogliere la sua ricchezza e il suo tormento, provenienti dalla sua fede in Dio. Padre Costantino infatti diceva di sé: “mi è toccata […] la grazia e la gioia di aver identificato la mia fede nell’arte e la mia arte nella fede”1. È questa relazione con il Signore che ha guidato tutta la sua vita. È il bisogno di esprimere questa sublimità e di renderti partecipe di questa esperienza che lo ha indotto a scegliere l’espressione artistica come modalità più adeguata per parlarti di Dio, perché Dio è “Bellezza”. “Tu sei bellezza”, pregava san Francesco. “San Francesco nelle cose belle contemplava Colui che è bellezza”, diceva san Bonaventura. Padre Costantino, figlio di questi maestri di fede e impregnato di spiritualità francescana, ha scelto di non trattenere per sé ciò che ha nettamente percepito come un dono e, per condividerlo, ha capito che il trasmettere questo dono doveva diventare la sua missione. Per questo motivo egli ha profuso il suo maggior impegno nell’ambito dell’architettura sacra e nell’arredo sacro e si può ben dire che padre Costantino ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca della bellezza per il luogo di culto.

Luce e colori, forme e materiali sono i mezzi di cui Costantino si è servito per materializzare il suo sguardo, i suoi sentimenti e la sua fede. Nella rassegna delle sue opere, dagli inizi all’età matura, ho notato una progressiva ricerca dei tratti sempre più essenziali, anche nel figurativo, e la ricerca di materiali sempre più aderenti al contesto, anche geografico, al quale era destinata l’opera. Forme essenziali e aderenza al luogo, alla natura, sono tratti che un francescano avverte come essenzialmente suoi, dopo che la figura di san Francesco ha instillato nel suo animo il fascino per la semplicità, per i materiali umili, per la povertà. Per questo non esitiamo a dire che tutta la produzione artistica di padre Costantino è intrisa di spiritualità francescana. “Possono bastare un colore, una riga, un rilievo, una curva […] – scrive – per suggerire quanto anche l’arredo integri […] il mistero del tempio, senza sradicarsi dalla quotidianità già sacra della vita, dall’intensa elementarietà del creato”2. In questa sua ricerca della semplicità, della essenzialità, dell’immediatezza, egli giunge come artista alla scoperta delle vetrate. E come non poteva affascinarlo la creazione di vetrate dove l’elemento principale è qualcosa di immateriale come la luce? E ancora una volta l’edificio sacro si rivela come l’ambito ideale per custodire l’esperienza che Costantino sente pulsare nel suo animo: la semplicità, la povertà, la luce, per trasmettere ciò che è sublime, cioè la presenza del divino. Padre Costantino per- ciò, nell’ideare chiese o nell’arredarle, è tutto preso dalla spiritualità che lo ispira, convinto com’è che, dall’antichità fino a oggi, la chiesa è custode della bellezza: la vera bellezza, quella che mediante il visibile ti apre all’invisibile. “Laudato si’, mi Signore, spetialmente messer lo frate sole, … ellu è bellu e radiante cum grande splendore, de te, Altissimo, porta significatione”, cantava e pregava san Francesco. Anche nello sguardo di padre Costantino, ossessionato dalla ricerca della luce, non poteva mancare una speciale “devozione” al sole. San Francesco dice: “perché de te, Altissimo, porta significatione”. Nelle vetrate di Costantino: dall’Italia all’Africa, all’Asia, fino aYamaguchi in Giappone è ricorrente trovare il sole; un sole grande che campeggia nella luce e tra i colori, che ti raggiunge, ti illumina e ti riscalda. In ognuno di questi luoghi il sole è stato pensato per te: per te fedele, per te celebrante i divini misteri, per te visitatore, per te alla ricerca di una spiritualità che il mondo d’oggi ti nega. In questo elemento ricorrente, Costantino non è ripetitivo, ma creativo, poiché escogita tutte le modalità e tutti gli spazi possibili per accoglierti e offrirti un’e- sperienza sempre nuova, un’esperienza sempre unica qual è l’incontro con la luce, un incontro che non ti lascia come prima poiché penetra, attraverso lo sguardo inondato di luce, nella tua persona, nel tuo vissuto.

Ecco il mio confratello padre Costantino, Frate minore, Francescano: è il Frate che con materiali semplici e con la luce ti prende, ti rapisce, ti sottrae dal tuo tempo e ti conduce nella dimensione della tua persona spesso trascurata, talvolta dimenticata, cioè: la dimensione spirituale. È un po’ ciò che avveniva un tempo al passaggio di san Francesco: una presenza semplice, umile, amante della povertà, ma che nell’incontro suscitava in tutti un fascino irresistibile: non per ciò che egli era, ma per ciò che portava dentro: l’amore del Signore.

C. Ruggeri, Soltanto un fiore. Genesi di un artista cristiano, a cura di N. Fabbretti, DIES, Milano 2001, p. 67.
2 P. C. Ruggeri, Le “cose” e il tempio, La Locusta, Vicenza 1982.

Perdonami se non ti ho messo l’aureola

“Perdonami se non ti ho messo l’aureola”1

Virtus Zallot

Un francescano pittore

“Essendo non meno stato eccellente pittore e miniatore che ottimo religioso, merita per l’una e per l’altra cagione che di lui sia fatta onoratissima memoria”2. Le parole con cui Giorgio Vasari introduce la Vita di Beato Angelico ben si adattano a Costantino Ruggeri: ottimo religioso ed eccellente artista, francescano pittore e pittore francescano. “Frate fin dall’inizio volevo diventare – ricordava Ruggeri – il parroco del mio paese e il mio zio prete volevano che diventassi prete e invece io no. Io voglio diventare frate”3.

Pittore, con altrettanta determinazione, era diventato iniziando con i disegnetti che decoravano i biglietti augurali per i superiori, copiando le opere celebri del passato, portando negli occhi e nel cuore le immagini affrescate nelle chiese del paese natale Adro e scoprendo, ancora in ginnasio, l’arte con- temporanea in “Il Frontespizio”4, che “proprio era una rivista moderna”5. Vocazione religiosa e vocazione artistica crebbero insieme e, per tutta la vita, Ruggeri esercitò nell’arte il lavoro manuale che, nella Regola non bollata, Francesco prescriveva ai fratelli concedendo loro “gli arnesi e gli strumenti necessari”6 per esercitare “quel mestiere che già conoscono”7. L’arte, per Ruggeri, “oltre a essere festa per gli occhi e lume per lo spirito, diventa rivelazione del divino nel mondo, presenza poetica, svelamento dei segreti della terra e profezia di quelli del cielo”8. Non, dunque, strumento didattico e divulgativo che ammaestra, descrive o racconta ma dispositivo che agisce, “forma che rivela. Non ‘mira’ a nulla, ma ‘significa’; non ‘vuole’ nulla ma ‘è’”9; luogo in cui “mettersi in silenzio, raccoglier- si, entrare, guardare con occhi desti e anima aperta, spiare, rivivere”10. Gli stessi sacerdoti avrebbero dovuto coraggiosamente accoglierla ritrovando, come auspicava Paolo VI, la secolare amicizia con gli artisti e rinunciando “ai surrogati, all’oleografia, all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa”11. Frate, sacerdote e artista, Ruggeri si mise a disposizione della Chiesa in molte chiese, accolto talora con diffidenza e in alcuni casi con ostilità, ma conservandosi lieto: poiché la perfetta letizia non deriva dai successi di cui “non ci possiamo gloriare, però che non sono nostri, ma di Dio”12, ma “è di vincere sé medesimo e volentieri per lo amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e obbrobri e disagi”13. Nel ricordo di chi l’ha frequentato, Ruggeri aderiva anche al seguente sollecito di Francesco: “E si guardino i frati dal mostrarsi tristi all’esterno e oscuri in faccia come gli ipocriti, ma si mostrino lieti nel Signore e giocondi e garbatamente allegri”14. Pur tuttavia, se la sua arte pubblica canta con gioia Dio e la bellezza del creato, quella privata (esercizio quasi quotidiano praticato nella cella-atelier) registrò anche “pene, ingiurie e obbrobri e disagi” d’uomo, e degli uomini.

Storie di san Francesco, 1949, affresco, particolari. Busto Arsizio (Varese), convento dei Frati Minori

Poiché il suo volto interiore fu “sempre esemplato, modellato sul volto di Francesco”15, la sua vita e la sua arte furono integralmente francescane. L’appartenenza all’Ordine non gli fu ostacolo ma “al contrario: un grande aiuto. Per un artista è la condizione ideale. Ho visto artisti che sono stati rovinati da una vita troppo mondana”16. La lieta povertà dei Minori gli garantiva la libertà. Non bramando il successo, si mantenne indipendente dai gusti del pubblico e dai meccanismi del mercato, dichiarandosi “pronto a rinunziare a tutto pur di non vendermi e di non arrendermi alle mode”17. Aggiungeva: “il fatto del giudizio altrui non mi ha mai infastidito o preoccupato. Cammino come posso, e cerco anche di volare”18. Ribadiva, inoltre, “non mi sono mai pentito di aver dovuto rinunziare a qualche incarico importante per non tradire la bellezza”19. La povertà e la libertà furono tuttavia mezzo e non fine. La povertà, come osservava Raoul Manselli a proposito di san Francesco, fu condizione che “porta a compimento la scelta della disponibilità verso gli altri, dell’amore verso gli altri”20. Ruggeri donava infatti il proprio lavoro o ne donava i proventi, per esempio mettendo in vendita opere per contribuire al finanziamento di progetti che il committente-sacerdote faticava a sostenere. La libertà gli fu premessa e promessa, poiché “i francescani soprattutto, a partire proprio da Francesco, sono per eccellenza la testimonianza nel mondo della libertà dello spirito che diventa amore”21: amore che egli inverò nelle sue opere. Ruggeri, infine, fu francescano in umiltà e sobrietà. L’umiltà essendo “l’unica misura che garantisce il senso della realtà, di sé stessi”22. La sobrietà come pratica anche artistica. Egli deprecava il superfluo, la piacevolezza e i manierismi. Facendo talora di necessità virtù utilizzava utensili, colori e supporti poveri, anche di recupero, vivendo tuttavia tale condizione come opportunità e non limite poiché gli strumenti più umili “possono anche trasformarsi in strumenti di poesia e di canto”23. Amava infatti i suoi “pennellacci duri e sfilacciati”24 e ricordava: “non li ho mai gettati nella spazzatura. O li bruciavo o li seppellivo”25 poiché “il pennello lo sento come un prolungamento del mio corpo […] non è un pezzo di legno con delle setole, è un’espressione, un prolungamento della forza della mia mano e del mio cuore. E quindi, come faccio a buttarli via?”26.

Nelle sue celle-laboratorio Ruggeri lavorò sollevato dai bisogni e dagli impegni del mondo ma non isolato dal mondo, bensì vivendolo in modo disinteressato: forse, inevitabilmente, riducendo il proprio campo d’esperienza ma preservandone l’autenticità. Egli visse intensamente la contemporaneità artistica frequentando colleghi e critici, visitando mostre, esponendo, leggendo e viaggiando (sin dalle fughe d’arte giovanili). Altrettanto intensamente (e umilmente) si confrontò con la tradizione, che tuttavia considerava non un passato da riverire e imitare quanto “un solco sereno, che però va incessantemente aperto in avanti, senza mai pretendere d’essere compresi. È fedele alla tradizione chi avanza libero, non importa se tollerato”27. Dopo il coacervo di esperienze della giovinezza, dal 1959 Ruggeri trovò nella tranquilla Pavia il luogo fisico, esistenziale e spirituale per lavorare in serenità poiché, “chi faceva questa arte aveva bisogno di quiete e di vivere senza pensieri, e […] chi fa cose di Cristo, con Cristo deve star sempre”28. Dal suo nido francescano esplorava l’orizzonte come un periscopio che vede senza farsi vedere, non perturbato e non perturbando il contesto.

La sua cella laboratorio ricorda il colle sul quale i primi francescani condussero madonna Povertà, per mostrarle “tutt’intorno la terra fin dove giungeva lo sguardo, dicendo: ‘Questo, signora, è il nostro chiostro’”29.

Storie francescane

“Quando cominciò a dipingere, ancora da studente”, ricordava Nazareno Fabbretti, “i frati si misero le mani nei capelli. A vedere quei san Francesco neri e duri […]. Loro, i buoni maestri, erano abituati a un’altra arte sacra e francescana, costellata di stimmate rosee, di bar- bette bionde, di tortorelle, di nuvolette bianche su cieli di cobalto”30. Motivo dello scandalo era il giovane Ruggeri, studente di teologia presso il convento del Sacro Cuore di Busto Arsizio dove, nel 1949, aveva affrescato un ciclo francescano.

Aspirante artista, nel 1948 era stato affiancato a Vittorio Pandolfi, impegnato a dipingere quattro episodi francescani nel presbiterio dell’attigua chiesa. Conclusi i lavori, Pandolfi gli aveva donato pennelli e colori invitandolo a proseguire in autonomia. Di certo il passaggio di testimone fu soltanto di tipo tecnico-operativo, come dimostra il palese scarto concettuale e stilistico tra le opere, così spazialmente e temporalmente vicine, del maestro e dell’allievo: “I nostri punti di vista sull’arte non collimavano affatto”31, ricordava infatti Ruggeri, che pure nutriva per Pandolfi gratitudine e stima.

Anche grazie al prezioso dono, Ruggeri ottenne dai superiori il permesso di affrescare tre scene in una sala relativamente marginale, al primo piano nel settore riservato agli studenti, e soltanto se il profitto scolastico non ne avesse risentito. I tre episodi (Francesco e i primi compagni, Francesco e il miracolo dell’acqua e Francesco e i poveri) mostrano un’intelligenza iconografica e una capacità di sintesi notevoli. Ruggeri ne fu soddisfatto, poiché li trasferì senza significative varianti (ma attenuandone grazia cromatica e formale) nel più vasto ciclo francescano che realizzò poi al pianterreno, nel corridoio principale del convento. Tale intervento fu subordinato all’approvazione di una scena campione. Presentò Francesco e i primi compagni. “Curai di proposito, con meticolosità, i particolari anatomici delle figure – ricordava – certo che il giudizio positivo sarebbe stato determinato, più che dai valori formali, da una certa espressione ‘piacevole’, tradizionale dei volti. Così feci, e centrai il bersaglio”32.

Ottenuto di proseguire, realizzò Francesco e il miracolo dell’acqua. “Le figure e il paesaggio parevano appena abbozzati, come fosse un lavoro lasciato a metà. Ma per me così doveva essere”33, raccontava. Rassicurò quindi i frati perplessi, affermando che “per avere una visione d’insieme senza ripensamenti, avevo bisogno d’abbozzare il tutto, e in un secondo tempo avrei rifinito a dovere l’opera”34. Quindi, “ultimato il cosiddetto abbozzo di tutti gli episodi, un bel mattino distrussi la ‘prova d’esame’, l’affresco campione, e lo rifeci rapidamente nello stile di tutti gli altri”35.

“Sono davvero belli e moderni”36 sentenziò una piccola commissione amica chiamata a visionare i dipinti; Pandolfi rispose alle rimostranze dei frati affermando che: “l’affresco deve restare così genuino com’è. Imbellettarlo con delle aggiunte guasterebbe tutto […]. Se ci sono errori, che restino! L’importante, cari frati, è che qui ci sono fantasia e poesia”37.

Nel selezionare e ideare le scene del suo ciclo, Ruggeri evitò l’esposizione edificante ed edulcorata. Non impaginò la ricostruzione verosimile e dettagliata di fatti antichi ma immagini da meditare per agire nel presente. Eludendo il meraviglioso e lo straordinario (mancano, per esempio, l’impressione delle stimmate, le visioni e i prodigi), di Francesco volle “narrare non tanto i miracoli, che dimostrano la santità ma non costituiscono la santità, bensì piuttosto lo specchio della sua vita esemplare”38. Le celebrazioni del settimo centenario della nascita del santo e la pubblicazione, nello stesso 1882, dell’enciclica Auspicato Concessum avevano avviato una stagione di nuove indagini su Francesco, destinate a depurarne la biografia dagli aspetti leggendari. Sottoposta a tale revisione la sua santità si consolidava invece che affievolirsi. “Gli abbellimenti aggiunti alla vita di lui hanno fatto dimenticare il san Francesco vero e reale, che è tanto più bello”39, scriveva nel 1894 Paul Sabatier, aggiungendo che i santi che emergono “dall’aureo fondo dei trittici, e non dal fondo cupo della realtà […] si acquistano forse un po’ più di rispetto presso la gente superstiziosa, ma la loro vita perde qualcosa della sua virtù e della sua forza comunicativa. Dimenticando che sono stati uomini come noi, non sentiamo più nella nostra coscienza la loro voce che grida: ‘Va’ e fa’ lo stesso’”40.

Cent’anni dopo, Jacques Le Goff avrebbe ribadito: “Quest’uomo umano, molto umano, è tuttavia un santo, un vero santo del XIII secolo, sufficientemente esemplare, eccezionale e totalmente cristiano da poter essere ancora un santo attuale”41.

Anche Ruggeri propose un Francesco dalla santità più esperienziale che taumaturgica. Dichiarò di ispirarsi a I Fioretti (“ma – aggiunse – in riferimento alla vita dell’uomo contemporaneo”42), la biografia meno attendibile ma capace di restituire la freschezza e la novità del messaggio e del sentimento dei primi francescani. Adeguando il registro pittorico a quello del racconto, realizzò una pittura quasi ingenua, una sorta di poesia visiva che “in luogo di esporre fatti […] fa un diretto appello all’immaginazione, comunicando emozioni, sentimenti, atmosfere”43, riuscendo là dove molta pittura a tema francescano coeva, più realistica e descrittiva, falliva.

“Non c’è malizia pittorica, sono innocenti, candidi, sono francescani! Si tratta di visioni sognate, ideali; ho voluto renderli aerei, come sogni portati da raggi di luce”44, dichiarava. La spontaneità de I Fioretti è restituita infatti da una sorta di leggerezza; le semplici figure sono intrise o contornate di bianchi luminosi che le rendono quasi evanescenti; i gesti sono lenti, i luoghi astratti, l’atmosfera silenziosa. Tuttavia, le piccole teste, che sbucano sui corpi ampi e monumentali, mancano di qualsiasi “espressione piacevole tradizionale”45.

Anche Francesco è brutto, come Masseo aveva impietosamente sentenzia- to: “tu non se’ bello uomo nel corpo”46. Eppure, era “incantevole, stupendo e glorioso nella sua innocenza, nella semplicità della sua parola, nella purezza di cuore, nell’amore di Dio, nella carità fraterna, nella prontezza dell’obbedienza, nella cortesia, nel suo aspetto angelico!”47.

Altrettanto i francescani, brutti ma belli per la bontà dei gesti e delle azioni, di una bellezza che è amore. I bisognosi, infine, sono persino deformi: proprio per tale condizione, che visualizza dolore e povertà, reclamano amore poiché, come ricordava Francesco, “il nostro maestro Gesù Cristo […] dice che non è bisogno a’ sani il medico ma agli infermi”48.

I primi tre episodi del ciclo (Francesco e i compagni, Francesco e il miracolo dell’acqua e L’approvazione della Regola) introducono i fondamenti di vita francescana: la fraternità, il Vangelo e l’appartenenza alla Chiesa.

Seguono un miracolo, Francesco che soccorre i poveri, Francesco e il lupo di Gubbio e un episodio di non facile interpretazione che, come il successivo, è parzialmente occultato da una scala. Tale secondo blocco tematico rammenta ai fratelli il necessario impegno nel mondo. Ne L’accertamento delle stimmate, infine, il corpo del santo svela la propria adesione al Crocifisso, nel confronto con il Cristo della grande Crocifissione in testata, al termine del corridoio e del racconto figurato. All’opposto, Morte di Francesco e Francesco e l’operaio compongono un dittico autonomo ed estrapolato dalla narrazione, esortando a raccogliere il testamento di Francesco e a rinnovarlo nel presente.

L’episodio iniziale (Francesco e i compagni, ma significativamente denominato da Ruggeri Francesco e gli amici49) si sviluppa in due scene: nella prima il santo accoglie con un abbraccio un (nuovo) fratello, nella seconda è raffigurata la sua piccola, primitiva, comunità. L’abbraccio di Francesco è prototipo e figura di fraternità. Dei primi compagni Tommaso da Celano narra: “Ogni volta che in qualche luogo o per strada, come poteva accadere, si incontravano era una vera esplosione del loro affetto spirituale […] Ed erano casti abbracci”50. Della versione di prova Ruggeri ricordava: “un grappolo di frati giovani circondava Francesco, tutti irradiavano felicità e fraternità”51; la stesura definitiva li mostra però decisamente preoccupati e mesti, quasi avvertissero la difficoltà della missione che li attende.

Segue Il miracolo dell’acqua, denominato anche La fonte del Vangelo. La scena è ispirata all’iconografia dell’episodio nel quale un povero si disseta alla fonte che, per intercessione di Francesco, miracolosamente sgorga dalla roccia. A braccia spalancate, in un controluce privo d’ombra, è tuttavia il santo a chinarsi verso una fonte, e non d’acqua ma di luce. Il suo gesto, lo stesso con cui nella tradizione iconografica si dispone a ricevere le stimmate, esprime una sorta di resa dichiarando la massima disponibilità.

“E dopo che il Signore mi donò dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del Santo Vangelo”52, ricordava il santo, che “rapito fuori di sé e trasportato in una grande luce, che dilatava lo spazio della sua mente, poté contemplare liberamente il futuro”53. Ruggeri visualizza tale rivelazione come fonte d’acqua/luce: acqua “zampillante per la vita eterna”54 e “luce vera, che illumina ogni uomo”55.

La successiva Approvazione della regola mostra il santo e i compagni inginocchiati davanti al papa. Ruggeri sostituisce al tradizionale cartiglio con l’incipit della Regola un cespo di rose che il pontefice riceve (o porge), figura “della spiritualità francescana donata, accolta e riconsegnata”56. Priva di elementi che ne consentano la collocazione storica57, la scena è immagine dell’Ordine che si pone al servizio della Chiesa.

L’illustrazione che segue è talora interpretata come un miracolo58. La mancanza di stupore (i compagni di Francesco gli volgono addirittura le spalle) sembra suggerire tuttavia una ‘banale’ opera di misericordia, con il santo che soccorre una famiglia povera. L’episodio introduce il blocco tematico dedicato alla carità di Francesco.

Nel successivo, infatti, egli porge un’offerta ad alcuni poveri dai volti (ancor più le donne) mostruosi. Altrettanto brutti e mesti, i francescani sembrano anticipare l’invito di papa Francesco a farsi “infermo con gli infermi, afflitto con gli afflitti”59.

Anche Francesco e il lupo evita la convenzionale esibizione del prodigio che voleva gli abitanti di Gubbio esprimere con gesti plateali riconoscenza e stupore. L’analoga scena del Pandolfi, nell’attigua chiesa del convento, mostra accanto al santo una donna che fila, un contadino e una placida pecora che l’impacciata attualizzazione e la contestualizzazione (in un sereno paesaggio agreste) rendono obsoleti. La scena di Ruggeri, invece, non invecchia. Intorno a Francesco i francescani di allora (dipinti) sono uguali a quelli di oggi, entrambi spettatori di un piccolo miracolo di perdono e accoglienza che tutti possono emulare, nella consapevolezza che la cattiveria è talora indotta dalle circostanze e dalla disperazione: “imperò che io so bene – disse Francesco al lupo – che per la fame tu hai fatto ogni male”60. Nucleo dell’episodio successivo sono alcune figure che si spogliano (o rivestono) sotto gli occhi di un gruppetto di frati e di laici. Il francescano in primo piano, profondamente prostrato a terra, potrebbe raffigurare il fratello guardiano inviato da Francesco ai tre ladroni per chiedere perdono di averli malamente cacciati; il santo propugnava infatti una carità senza pregiudizi. La spogliazione si riferirebbe, in tal caso, alla successiva conversione dei malfattori che, pentiti, si apprestano ad assumere l’abito dei francescani61.

Segue l’Accertamento delle stimmate. Narra Tommaso da Celano che, quando i compagni affranti le scoprirono sul corpo di Francesco, “il lutto si cambiò in cantico e il pianto in giubilo”62. Ruggeri presenta tuttavia la mesta veglia intorno a un amico defunto: più che la constatazione di un fatto straordinario, dunque, “il perenne dramma della perdita delle persone care”63. Analoga concezione presiede la Crocifissione, immagine del dolore di chi rimane: dolore che si imprime nelle figure e nel paesaggio, nella frantumazione delle forme, nel ritmo serrato della composizione e nei colori carichi e sordi. Ai piedi del Cristo crocifisso senza croce è accumulata una catasta di corpi come esplosi. I ladroni e i dolenti sono drammaticamente deformi; Maria ha un’orrida smorfia macchiata dal pianto e la piccola testa di Giovanni non pare umana. Alcuni frati osservano e meditano; spettatori del dramma sacro, soffrono insieme ai fratelli (che sostano davanti all’opera) la comassione.

La stessa condivisione pervade La morte di Francesco, posta con Francesco e l’operaio dall’altro capo del corridoio. Intorno al corpo del santo si compone un vasto repertorio di gesti del dolore che, contenuti nelle solide e sintetiche masse degli abiti, citano Giotto e i compianti trecenteschi. Alcuni poveri avanzano da destra e, in basso, drammaticamente si frantumano. Dell’episodio l’arte coeva offriva interpretazioni dominate da un certo sentimentalismo. Ruggeri ne propone una versione asciutta e rude, in cui figure semplici ed elementari elevano un coro d’amore. La spettacolare veste azzurra, tinta di cielo, colloca Francesco in paradiso senza ricorrere a nuvole, luci o angeli.

Francesco e l’operaio, infine, è una sorta di testamento visivo che anticipa le parole di papa Francesco: “Aprite i vostri cuori e abbracciate i lebbrosi del nostro tempo”64. Al lebbroso, il derelitto medievale per antonomasia, Ruggeri sostituisce l’operaio esposto ai pericoli del lavoro e privo di ammortizzatori sociali; all’ambientazione neutra degli episodi precedenti quella urbano-industriale di una società appena uscita dalla guerra.

Componendo una sorta di trittico, nella scena centrale raffigura un pover’uomo barcollante e nudo sorretto e protetto da un gruppetto di frati che gli fanno corona mentre altri osservano; nella sinistra Francesco (o un francescano) che si carica sulle spalle un operaio infortunato; nella destra Francesco (o un francescano) che porge da mangiare a un gruppetto di poveri preceduti da una donna supplice o grata. Un uomo, armato di fucile, sorride. È forse l’unico sorriso in tutto il ciclo: un sorriso di speranza.

Il suo san Francesco

Il San Francesco65 esposto nel 1951, nella prima personale di Ruggeri presso la Galleria San Fedele di Milano, è una solida e immobile figura priva di volto che pare illustrare le seguenti parole: “Di quel tuo volto non ne abbiamo bisogno. Perché tutti possono avere in qualche modo il tuo volto e tu puoi avere, ora come allora, il volto di tutti”66.

Ruggeri, infatti, riempì quel vuoto sia con i lineamenti essenziali di ciascun uomo (il volto di tutti) che con il ritratto di specifici uomini (perché tutti possono avere in qualche modo il tuo volto): sempre, comunque, rifuggendo le fisionomie stereotipate e gradevoli, l’espressione patetica e le posture artefatte.

Anche quando illustrò Francesco e gli uccelli evitò “di ridurre san Francesco d’Assisi al santo romantico, all’innamorato della natura che parla ai fiori, agli uccelli, al fuoco e alle nuvole, come fanno i bambini e i poeti”67.

In quello realizzato nel 1959 sulla facciata della chiesetta dei francescani presso il passo del Tonale68, recuperò la disposizione di profilo di Giotto. Di contro alla solida e concreta costruzione del modello, tracciò tuttavia una delicata figura quasi evanescente, di una sincerità e semplicità infantili. L’episodio raffigurato (tra i molti che presentano Francesco con gli uccelli) è probabilmente l’arrivo sulla Verna, poiché il santo protende la piccola testa e le mani verso i volatili che gli giungono incontro: “Io credo – disse ai compagni – ch’al nostro Signore Gesù Cristo piace che noi abitiamo in questo monte solitario, poiché tanta allegrezza ne mostrano della nostra venuta le nostre sirocchie e fratelli uccelli”69.

Al medesimo evento sembra riferirsi Uccelli, pubblicato nel 1980 in Francesco e gli amici70. Alle delicate e rarefatte figure della scena in Tonale si sostituisce l’intricato viavai di una moltitudine di uccelli in volo; a contorni semplici ed essenziali un fitto e nervoso incrocio di linee; al silenzio una gioiosa frenesia. Come vivace istantanea, l’opera sembra illustrare l’avventura in campagna di un fraticello qualsiasi che, festosamente assalito da uno stormo, ride e ci guarda.

Perfetta letizia, tempera su masonite realizzata nel 198071, è invece un’in- candescente visione estrapolata dal tempo e dallo spazio. Accennati con larghe e sintetiche pennellate, Francesco e gli uccelli sembrano applicati a un cielo non terrestre che due tondi (uno giallo e uno verde: il sole e la terra?) rendono immobile e astratto. Il cambio di registro espressivo corrisponde al diverso significato dell’immagine: non racconto ma probabile figura dell’Ordine, in cui gli uccelli-colombe raffigurano i francescani72. Anche nella rappresentazione di Francesco, come in ogni declinazione del suo operare artistico, Ruggeri cercò e sperimentò dunque forme, lingue e tecniche diverse. Nella tavola per la chiesa di Santa Maria all’Ospedale San Carlo Borromeo di Milano73, gli assegnò i tradizionali attributi iconografici denotandone la santità. Tali indicatori (richiesti dalla committenza) caratterizzano tutti i suoi santi ospedalieri quale condizione necessaria alla loro distinzione e riconoscibilità. Come in un dossale medievale, lo ieratico Francesco è dotato di aureola, croce, libro, cordone con i nodi e, soprattutto, stimmate. Non disegnate ma ricavate con capocchie di ferro, esse sembrano citare “non i fori dei chiodi, ma i chiodi medesimi formati di carne dal color del ferro”74 descritti da Tommaso da Celano.

Un San Francesco di Ruggeri fu immagine di copertina del Calendario francescano 198275, dopo essere stato pubblicato in Francesco e gli amici (1980) e in Quivi perfetta amicizia. Francesco e i suoi (1981)76. Di contro alle fisionomie sintetiche e indeterminate degli esempi sinora citati, questo volto in primissimo piano ha una dettagliata fisicità, tanto da essere definito “Un vero ritratto di S. Francesco”77. È, infatti, l’immagine di un uomo vero78 che intensamente ci guarda, la testa lievemente inclinata, i capelli spettinati, qualche ruga sulla fronte e la bocca appena imbronciata. Travalicando la distanza storica, le elaborazioni biografiche e la tradizione iconografica ci compare, vivo, dinnanzi. Nulla ne segnala la santità. “Perdonami se non ti ho messo l’aureola, di cui i tuoi amici papa e cardinali furono subito generosi e gelosi – si scusava Ruggeri. In quel modo ti avrei soltanto consegnato al passato, proprio te che hai vissuto nuovi tutti i sentimenti e le cose”79; e aggiungeva: “Nel darti un volto che fosse oggi giusto per te non ho obbedito a schemi e ricordi interiori anche se profondi e preziosi. Mi sono lasciato alle spalle tutto il passato, per guardarti, accompagnarti, interrogarti come un uomo del mio tempo”80.

Gli amici di san Francesco

Già affrontato nel ciclo di Busto Arsizio, agli inizi degli anni Ottanta il tema Francesco e gli amici assunse struttura e caratteri nuovi. Estrapolati dal racconto e denotati individualmente, i compagni di Francesco diventarono protagonisti delle già citate pubblicazioni edite in occasione delle celebrazioni per l’ottavo centenario della nascita del santo: Francesco e gli amici (1980), Quivi è perfetta amicizia. Francesco e i suoi (1981) e il Calendario francescano Francesco e gli amici (1982). Otto tavole di Ruggeri (più due, Uccelli e Povertà in sovra copertina) illustrarono inoltre Francesco e gli amici di Nazareno Fabbretti (1981).

Francesco e gli amici del 1980 include 24 tavole compilate tra il 1950 e il 1980, ciascuna commentata da un breve estratto da Fonti francescane. Quivi è perfetta amicizia impagina 44 opere datate 1951-1980, accompagnate da commenti di Nazareno Fabbretti e citazioni da Fonti francescane; il ricco volume presenta inoltre introduzione e cantico finale di David M. Turoldo. Il Calendario francescano, oltre al ritratto di Francesco in copertina, è illustrato da dodici Amici (uno per mese) con, a didascalia, brevissime citazioni da Fonti francescane e, in chiusura, una raccolta di sintetiche biografie di Nazareno Fabbretti.

Ciascuna pubblicazione include opere realizzate in tempi diversi (alcune ripetute) di cui non è facile ricostruire la cronologia; alle più antiche81, a tempera su cartoncino, si affiancano i più numerosi ritratti ottenuti per integrazione pittorica di riproduzioni fotografiche. Allargatosi progressiva- mente, il repertorio degli amici comprende, oltre alla primitiva comunità di Francesco, altri che gli furono accanto e, in una ricostruzione che giunge al presente, esponenti dell’Ordine e interpreti della sua eredità (sino a don Orione, Gandhi e Maria Teresa di Calcutta). A identità determinate si accostano figure generiche (Mendicante, Lebbroso, Povertà, persino Satana), ai prevalenti primi piani inquadrature più ampie talora con figure multiple e minimali ambientazioni (Pacifico, Silvestro, Uccelli, Ladroni, I poveri, Frati itineranti, Il lavoro).

La composizione paratattica e la disomogeneità stilistica danno forma a una concezione dell’amicizia intimamente francescana, fortemente inclusiva e priva di aspettative e pregiudizi: “E chiunque verrà – prescriveva la Regola non bollata – amico o nemico, ladro o brigante, sia accolto con bontà”82.

Il lebbroso, Innocenzo III, Egidio, Pica, Chiara, Masseo, 1950-1980. Da Ruggeri, Francesco e gli amici, Arti grafiche Barlocchi, Settimo Milanese 1980

Testimoniano, inoltre, “la metodologia dell’amicizia in Francesco. Intendiamo dire il radicale, quasi fanatico, rispetto della personalità di ciascuno dei suoi amici; il rifiutarsi sempre di ridurre colui ch’egli ama, o che da lui in qualche modo dipende, a una copia e neppure a un’imitazione di sé stesso”83.

Nel testo dattiloscritto di un’omelia, Ruggeri rivolge a Francesco parole che sembrano esplicitare il suo metodo iconografico: “Vicini a te ci sono i tuoi amici d’allora, ma con il volto dei tuoi e nostri amici di oggi”84.

Moderni e inconsapevoli contemporanei prestano infatti la propria fisionomia ad antichi personaggi, secondo una prassi che trova, nella Storia dell’arte, illustri precedenti. Giovane novizio, Ruggeri già aveva illustrato I Fioretti “prendendo a modello alcuni miei compagni, soprattutto per i volti”85; e se a Busto Arsizio aveva evitato qualsiasi caratterizzazione per rendere gli antichi francescani specchio di ogni francescano, qui decisamente li contras- segna per fornire loro una concreta umanità. Il procedimento è analogo a quello adottato da Pierpaolo Pasolini nel Vangelo secondo Matteo (1964), i cui protagonisti furono attori non professionisti, le comparse la popolazione locale. Rifuggendo il bello convenzionale e la caricatura del brutto, la povertà ricostruita e la pedissequa rievocazione, Ruggeri come Pasolini compose un’umanità autentica poiché vera.

Alcuni degli amici, come alcuni dei personaggi del Vangelo secondo Matteo, erano volti noti. Anche tale accorgimento trova riscontro nella tradizione artistica86. Oltre allo scopo celebrativo o diffamatorio, la citazione di persona nota contribuiva alla riconoscibilità di figure (reali o astratte) altrimenti fisicamente indeterminate; perché ciò accadesse era necessario, tuttavia, stabilire assonanze tra interprete e interpretazione. Ruggeri, invece, non solo non cercò corrispondenza caratteriale, esistenziale e fisica ma talora la contraddisse.

“L’aspetto attraente e il buon senso di Masseo, con il suo parlare bello e devoto”87 non trova riscontro nel suo ritratto, dagli occhi strabici ed espressione più bonaria che arguta.

Jacopa, la virtuosa nobile che Francesco volle accanto sul letto di morte, è una donna palesemente giovane e bella88 seppur le fonti vogliano la sua femminilità mortificata e austera.

Alcune soluzioni sono sorprendenti. La forza mediatica dell’icona pop(olare), che Andy Warhol aveva magistralmente segnalato, veicola l’identità di forse più degne (e misconosciute) notorietà. Elia è interpretato da Charles Aznavour, Lucchesio da Eduardo De Filippo ed Egidio dall’allenatore della Nazionale di calcio italiana Enzo Bearzot. Giuseppe Ungaretti presta uno sguardo bieco all’inquietante Innocenzo III, forse “attonito e spaventato” dopo aver sognato la chiesa di San Giovanni in Laterano sostenuta da “un religioso piccolo e di aspetto meschino”89. Pacifico “il più rinomato dei cantori frivoli ed egli stesso autore di canzoni mondane”90 assume le fattezze di Luigi Tenco. Ruggeri ri-lavorò un fotogramma dall’intensa esecuzione del cantante al Festival di Sanremo del 1967. Se, nello specifico, stabilì assonanza professionale tra figura contemporanea e antica, è comunque significativo che abbia fatto interpretare Pacifico a un uomo che si era suicidato.

L’inquadratura dal basso e il portamento altero conferiscono a Lebbroso inaspettata fierezza91. L’inquietante figura è forse il malato “sì impaziente e sì incomportabile e protervo”92 che Francesco lavò amorevolmente, sanandolo sia nel corpo che nell’anima; contraddice comunque il tipo convenzionale del bisognoso, solitamente supplice ed emaciato.

Di Silvestro Ruggeri raffigurò il pentimento, prediligendolo alla “vita perfetta”93 che scelse, già anziano, di condurre accanto a Francesco. La drammatica figura, contornata da una pesante ombra nera, ha le mani serrate e lo sguardo al cielo mentre, spiazzata dalla generosità santo, esclama: “Sono proprio un miserabile! Eccomi vecchio, e ancora a concupire e cercare insaziabilmente le cose di questo mondo; mentre questo giovane le disprezza e calpesta per amore di Dio”94.

I tre ladroni non sono raffigurati come spavaldi e pericolosi briganti ma quando “venivano a elemosinare umilmente, sospinti da grave necessità”95.

Simone, che si disponeva all’estasi giacendo a letto “imperò che la tranquilla soavità dello Ispirito Santo richiedeva in lui non solo riposo dell’anima, ma eziandio del corpo”96, è travolto da incontenibile energia: postura e smorfia gli sono prestate da uno scatenato Dario Fo.

Talora, infatti, Ruggeri attivava una doppia traslazione di identità, facendo interpretare gli amici da attori che recitano un personaggio. La dissonanza tra il ruolo impersonato nella realtà della finzione scenica e nella sua trascrizione iconografica produce una sorta di corto circuito interpretativo, che di nuovo induce ad interrogarsi.

Santa Chiara è Sophia Loren nei panni della Monaca di Monza. Ruggeri rielaborò la fotografia di copertina del settimanale “Oggi” che, nel settembre 1961, aveva pubblicato in esclusiva il reportage dei provini realizzati dall’attrice con Luchino Visconti, in preparazione alle riprese de La signora di Monza. Nel volto incorniciato dal velo delle Umiliate benedettine Chiara è di una bellezza contemporanea, nella società dei media incarnata da un’attrice sensuale e famosa; colpisce (e non può essere casuale) l’esibito scarto morale tra la grande santa e la monaca manzoniana.

Analogo dislivello separa Orlando, che donò a Francesco il monte della Verna97, e Carlo Coriolano di Santafusca, il protagonista de Il cappello del prete. Ruggeri attribuì al conte amico di Francesco l’intenso volto di Luigi Vannucchi, interprete del dissoluto barone nello sceneggiato televisivo tratto dal romanzo di Emilio De Marchi e mandato in onda, per la regia Sandro Bolchi, nel 1970.

Citazione cinematografica è Pica, ricavata da un fotogramma di Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957). La madre di Francesco, con notevole e significativa discrepanza tipologica, è la giovane strega impersonata da Maud Hansson.

Ginepro è invece citazione pittorica dalla Salita al Calvario di Hieronymus Bosch98. Al compagno di Francesco, che la leggenda vuole di una semplicità e bontà disarmanti, Ruggeri attribuisce lo spaventato profilo del Buon ladrone.

Ma la figura più straordinaria, totalmente antiretorica e alternativa rispetto alla tradizione iconografica che la vuole mesta ed emaciata, è Povertà: colta in un umanissimo salto, le braccia alzate e la bocca spalancata in un’incontenibile risata, è per il francescano fra Costantino, come per Francesco, un’esplosione di gioia.

Ai molti amici inclusi nelle pubblicazioni citate altri continuarono ad aggiungersi. L’archivio della Fondazione Frate Sole ne conserva (in copia) un vasto repertorio che documenta la centralità del tema nell’esperienza artistica di Ruggeri e la sua instancabile sperimentazione, che lo portò a elaborare le immagini anche in digitale. A figure dettagliate si alternano figure quasi astratte; a linee che evidenziano un sottostante volto altre che decisamente lo negano, talora sottili altre ampie, talora morbide altre spigolose; le campiture di vivacissimi colori sono spesso indipendenti dalle forme e affatto verosimili. Le varianti tecnico-stilistiche citano correnti e autori: scorrendo gli amici di Ruggeri si incontra l’arte del Novecento.

1 Si veda qui a p. 243.
2 G.Vasari, Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti [Firenze 1550], II vol., a cura di L. e C. Ragghianti, Rizzoli, Milano 1971, p. 147.
3 Fra Costantino frate a 11 anni, http://www.padrecostantino.it/portfolio/frate-a-11-anni/.
C. Ruggeri, in N. Fabbretti (a cura di), Sol- tanto un fiore. Genesi di un artista cristiano, Marietti, Città di Castello (PG) 1990, pp. 13-14.
Fra Costantino. Cielo verde, http://www.padrecostantino.it/portfolio/cielo-verde/.
6 Francesco d’Assisi, Regola non bollata (1221), cap.VII, in E. Caroli (a cura di), Fonti Francescane, Edizioni Messaggero Padova, Padova 1996 (in seguito, FF.), p. 105.
7 Ibidem.
8 Ivi, p. 71.
9 R. Guardini, L’opera d’arte, Morcelliana, Brescia 2008, p. 31.
10 Ivi, p. 35.
11 https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/homilies/1964/documents/hf_p-vi_hom_19640507_messa-artisti.html
12 I Fioretti di San Francesco, cap.VIII, in FF., p. 1473.
13 Ibidem.
14 Francesco d’Assisi, Regola non bollata, cap. VII, in FF., p. 106.
15 G. Ravasi, Intervento alla mostra in San Fedele, 8 maggio 2001, ciclostilato in Archivio Fondazione Frate Sole, Pavia.
16 Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., pp. 116-117.
17 Ivi, p. 82.
18 Ivi, p. 83.
19 Ivi, p. 69.
20 R. Manselli, Tre conferenze inedite su san Francesco d’Assisi. Milano 1981-1983, Biblioteca Francescana, Milano 2018, p. 37.
21 G. Ravasi, Cinquantesimo di padre Costantino, Archivio Fondazione Frate Sole, Pavia.
22 Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., p. 84.
23 Ivi, p. 26.
24 Ivi, p. 25.
25 Ibidem.
26 Fra Costantino. Arte e pennelli, https://www.padrecostantino.it/portfolio/arte-e-pennelli/
27 Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., p. 123.
28 Attribuite a Beato Angelico e riportate da Vasari, Le Vite cit., p. 158.
29 Sacrum Commercium sancti Francisci cum Domina Paupertate, in FF., p. 1663.
30 N. Fabbretti, Il ‘frate informale’ scandalizzava i buoni francescani del suo convento, in “Il Quotidiano”, 25 settembre 1964-1963, Archivio Fondazione Frate Sole, Pavia.
31 Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., p. 37.
32 Ivi, p. 39.33 Ivi, p. 40.
34 Ibidem.
35 Ibidem.
36 Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., p. 41.
37 Ibidem. La commissione comprendeva, oltre a Pandolfi, il dottor P. Garavaglia e l’architetto E. Castiglioni.
38 Tommaso da Celano, Vita Prima, parte I, cap. XXVI, in FF., p. 466.
39 P. Sabadier, Vita di S. Francesco d’Assisi [Parigi, 1894], Porziuncola, Assisi 2017, p. 43.
40 Ibidem.
41 J. Le Goff, prefazione a C. Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Einaudi, Torino 2001, p.VI. Anche gli studi di Frugoni perseguono la ricostruzione di un Francesco storicamente vero.
42 Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., p. 38.
43 B. Berenson, Sassetta. Un pittore senese della leggenda francescana, Abscondita, Milano 2015, p.35. Berenson si riferisce alle scene che il Sassetta realizzò per lo smembrato polittico di Borgo San Sepolcro (1437-1444), ritenendole capaci di esprimere l’ideale francescano più dell’arte illustrativa e didascalica, per esempio di Giotto.
44 Citazione tratta da S. Aldeni, San Francesco e padre Costantino Ruggeri: un incontro di vita e di arte, in A. Spada (a cura di), Tue so’ le laude. I Frati Minori a Busto Arsizio 1898-1998, Arti Grafiche Baratelli, Busto Arsizio (Varese) 1999, p. 225.
45 Tale imbruttimento ‘espressionista’ ricorda, per analogia di procedimento pur nella diversità di linguaggio, alcune figure di Girolamo Romanino, di cui Ruggeri affermava: “certamente uno dei pittori che ha avuto più influenza su di me”. In Fabbretti, Soltanto un fiore cit., p. 13.
46 I Fioretti di San Francesco, cap. X, in FF., p. 1476.
47 Tommaso da Celano, Vita Prima, parte I, cap. XXIX, in FF., p. 476.
48 I Fioretti di San Francesco, cap. XXVI, in FF., p. 1511.
49 Ibidem.
50 Tommaso da Celano, Vita Prima, parte I, cap. XV, in FF., p. 443.
51 Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., p. 39.
52 Francesco d’Assisi, Testamento [1226], in FF.,  p. 132.
53 Tommaso da Celano, Vita Prima, parte I, cap. XI, in FF., p. 432.
54 Giovanni 4,14.
55 Giovanni 1,9.
56 Aldeni, San Francesco e padre Costantino Ruggeri cit., p. 231.
57 Senza cartiglio la scena raffigurerebbe l’approvazione orale della Regola da parte di Innocenzo III, con il cartiglio la sua conferma da parte di Onorio III.
58 S. Aldeni, in San Francesco e padre Costantino Ruggeri cit., p. 233, vi riconosce la guarigione di Bonaventura da Bagnoregio bambino.
59 Discorso del Santo Padre Francesco ai membri delle famiglie francescane del primo ordine e del terzo ordine regolare, Sala Clementina, Città del Vaticano, 23 novembre 2017. In https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/november/documents/papa-francesco_20171123_famiglie-francescane.html.
60 I Fioretti di san Francesco, cap. XXI, in FF., p.1501.
61 Ivi, cap. XXVI .
62 Tommaso da Celano, Vita Prima, parte seconda, cap. IX, in FF., p. 503.
63 Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., p. 39.
64 Si veda nota 59.
65 L’opera è pubblicata in P. E. Trettel, Fogli sparsi, Trento 1950: Archivio Fondazione Fra- te Sole.
66 C. Ruggeri, Francesco un volto per l’uomo, Archivio storico Provincia di S. Antonio dei Frati Minori, Milano, dattiloscritto con correzioni a mano.
67 C. Ruggeri, Omelie domenicali, ciclo A dell’anno liturgico, 4 ottobre, si veda qui antologia.
68 La chiesetta, costruita sul versante bresciano del passo del Tonale, fu realizzata da Giovanni Muzio nel 1956. Nel 1959 Ruggeri tracciò, in facciata, figure di santi delimitati da contorni graffiti sull’intonaco bianco e delicatamente colorati. Per l’esposizione in esterno e per mancata manutenzione, essi si sono progressivamente deteriorati e risultano, in alcune porzioni, cancellati.
69 I Fioretti di san Francesco, Della prima considerazione delle sacre sante Istimate, in FF.., p. 1584.
70 C. Ruggeri, Uccelli, in Idem, Francesco e gli amici cit. 1980; quindi in Idem, Quivi è perfetta amicizia. Francesco e i suoi, Biblioteca France- scana, Milano 1981; come immagine di copertina: N. Fabbretti, Francesco e gli amici, Rusconi, Milano 1981.
71 L’opera è di proprietà SERMIG, Torino.
72 Sul tema: C. Frugoni, Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica di Assisi, Einaudi, Torino 2015, pp. 332-341.
73 Lo stesso Gio Ponti, che realizzò la chiesa tra il 1963 e il 1969, affidò a Ruggeri l’incarico di predisporre ventidue icone di santi ospedalieri da inserire nelle nicchie interne dell’ampia parete di fronte all’ingresso. Le grandi e sintetiche figure sono incise e dipinte su tavola, con inserti in vetro e in ferro battuto. Prima di essere collocate nella cappella (benedetta il 3 novembre 1965) furono espote a Pavia, entro il convento di Canepanova, sotto le torri di piazza Leonardo e in un pioppeto lungo il Ticino.
74 Tommaso da Celano, Vita Prima, parte seconda, cap. IX, in FF., p. 503.
75 Anche il Calendario, edito da Biblioteca Francescana di Milano per l’ottavo centenario della nascita del santo, fu intitolato Francesco e gli amici.
76 Lo stesso ritratto del santo illustra la copertina di F. Olgiati, La vera pace dello spirito, Biblioteca Francescana, Milano 2015.
77 N. Fabbretti, Un vero ritratto di S. Francesco. Una vita spesa bene, in “Bollettino parrocchiale di Adro”, ottobre 1981, Archivio Fondazione Frate Sole, Pavia.
78 Alcuni sostengono che il volto sia ispirato a quello dell’amico architetto Luigi Leoni, cui effettivamente somiglia molto.
79 Ruggeri, Francesco e gli amici cit., introduzione.
80 Ruggeri, Francesco un volto per l’uomo cit.
81 Frate minore risale al 1951: Silvestro, Ginepro e Pacifico al 1953.
82 Francesco d’Assisi, Regola non bollata, cap. VII, in FF., p. 106.
83 L. Santucci, in Fabbretti, Francesco e gli amici cit., introduzione nel risvolto di copertina.
84 Ruggeri, Francesco un volto per l’uomo cit.
85 Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., p. 18.
86 Famosi sono, per esempio, Euclide interpretato da Bramante nella Scuola di Atene di Raffaello e Minosse da Biagio da Verona nel Giudizio Universale di Michelangelo.
87 Specchio di perfezione, parte quinta, in FF., p. 1397.
88 Il ritratto fotografico di base ricorda l’attrice Jeanne Moreau.
89 Leggenda dei tre compagni, cap. XII, in F.F., 1104.
90 Tommaso da Celano, Vita seconda, cap. LXXII, in FF., p. 638.
91 La figura pare ricavata da un ritratto fotografico di Carlo delle Piane.
92 I Fioretti di san Francesco, cap. XLI, in FF., p. 1508.
93 Tommaso da Celano, Vita seconda, cap. LXXV, in FF., p. 642.
94 Leggenda dei tre compagni, cap. IX, in FF., p. 1090.
95 Leggenda perugina, in FF., p. 1255.
96 I Fioretti di san Francesco, cap. XLI, in FF., p. 1543.
97 Ivi, Della prima considerazione delle sacre Istimate, p. 1579.
98 L’opera, databile 1490-1510, è conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Le ragioni di una riflessione corale

Le ragioni di una riflessione corale
Maria Antonietta Crippa

Il celebre storico americano Kubler1 ha ricordato, anni fa, che tra il mestiere dell’astronomo e quello dello storico dell’arte, in tutte le sue espressioni, esiste una singolare affinità di scopo, conseguente al fatto che ambedue studiano fenomeni di luce già spenta eppure tuttora visibile. Essi sono: per gli astronomi, le brillanti stelle estinte che tutti possiamo ammirare in una notte limpida; per gli storici, i fatti eminenti di una cultura non più recuperabile nella sua integrità ma che ha lasciato tracce di splendore in capolavori d’arte, oltre che di ‘cose’ o strumenti d’uso, visibili e godibili nel nostro tempo. Unico scopo di astronomi e storici è restituire piena visibilità, far apparire, cioè, al meglio, per meglio comprenderlo, l’oggetto del proprio interesse.

Il richiamo è qui utile per far comprendere le ragioni dell’indagine corale che si propone in questo volume: gli autori hanno inteso fornire l’attrezzatura indispensabile che consenta di far apparire la grandezza, umana e d’artista, di padre Costantino Ruggeri (1925-2007) ora troppo poco nota, anzi a rischio di dimenticanza, forse per una sempre più diffusa superficialità estetica collettiva. Le loro indagini e ricostruzioni storiche e il lavoro accurato di presidente e membri della Fondazione Frate Sole, prodotte per fornire conoscenze di base e selezionare documenti e immagini a fini documentari, non hanno certo pretese di completezza. Questo libro, pensato in dimensioni contenute, vorrebbe al contrario segnare l’inizio di una riscoperta, quindi di una doverosa storicizzazione che esige l’esplorazione di molti archivi, la rivisitazione puntuale di una vasta pubblicistica, de visu anche di tutte le sue architetture.

Nel programmarlo, a causa della multiforme e davvero molto ampia produzione artistica di Ruggeri, ci si è resi subito conto dell’imprescindibile necessità di individuare un punto di vista adeguato a farne emergere ciò che la fonda in unità e che, pertanto, riverbera immediatamente la sua singolarità di uomo che è stato pittore, scultore, artigiano, archi- tetto sui generis, poeta, scrittore, oltre che, dati di fatto importanti, sacerdote e frate francescano che ha attraversato quasi per intero il XX secolo e si è affacciato sul XXI.

Jean Clair è di recente esploso in un grido di identificazione della drammatica densità del nostro oggi privo di utopie: “Il chiavistello del futuro è saltato, ed è il tempo nella sua pienezza che ci viene restituito. Tempo profondo, profuso, contradditorio, senza alcuna segnaletica imposta, tempo in cui i fenomeni d’arcaismi, d’investigazioni del passato, di ritorni, cessano di urtarsi all’obbrobrio di cui furono oggetto al tempo dell’ideologia futurista, per ridiventare ciò che sono sempre stati: spinte e risorse, possibilità accresciute di libertà”2. Padre Costantino ha anticipato, nella sua attività d’artista, questo primato di un presente come tempo di pienezza restituita, senza però vivere la cruda amarezza che attraversa il pensiero di Jean Clair, perché non ha sperimentato alcun rifiuto delle avanguardie, dalle quali ha anzi estratto di continuo contributi per lui indispensabili, affidandosi inoltre all’universo dell’arte di antica fon- dazione, purché fosse viva nelle culture dei popoli.

C’è un’intuizione felice nella sua messa a fuoco del principio dello spazio mistico, sfuggente alla complessità del sacro universale – nell’allontanamento dalla costella- zione semantica tra sacro, santo, religiosità, religione, divenuta dagli anni Settanta fino a oggi un vasto contesto di studi – ma impegnato ad affermare l’infinito mistero, di presenza umano-divina di Cristo nel mondo, nella propria ricerca artistica. Conoscendo infatti, per confidenza quotidiana col mistero cristiano, la sua attualità anche storica nella compagine ecclesiale e quindi la sua forza persuasiva negli uomini semplici, a quello decise di affidarsi.

Ma di quale senso mistico si trattasse, ha scritto un suo amico, si poteva “dedurre subito dalla sua stessa robusta corporatura, dal suo tronco proteso, le braccia ampiamente gesticolanti, per farsi strada con irruenza in una giungla di idee entusiasmanti e di umane contraddizioni”, e dallo sguardo “dietro le palpebre socchiuse, protettive dei lunghi momenti di una violenta concentrazione del discorso” per rivolgerlo “tonante, vibrante, contro le vetrate in costruzione nell’officina troppo stretta per la spirituale monumentalità del suo lavoro e per l’espansiva, affollata apprensione della sua parola”3. Il suo spazio mistico è vitalmente energico, incarnato nell’esperienza di incontro con gli uomini e con il mondo creato.

In un certo senso egli lo ha ereditato direttamente da san Francesco d’Assisi. Il solido ancoraggio alla sua memoria e alla tradizione da lui generata, ci è parso la chiave più stringente per la comprensione dell’unità che struttura le diverse espressioni artistiche di Ruggeri. Felice congiuntura ci è sembrata, a questo proposito, la connessione cronologica tra il 2019, data della pubblicazione di questo libro, e quel 1219 nel quale il santo assi- siate fece visita al sultano al-Malik al’Kamil a Damietta, in Egitto.

1 G. Kubler, La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose, Einaudi,Torino 2002.
2 J. Clair, Considerazioni sullo stato delle belle arti. Critica della modernità, Abscondita, Milano 2018, pp. 89-90.
3 G. Ferri, Il gesto della spoliazione. Costantino Ruggeri france- scano e architetto, La Locusta,Vicenza 1980, p. 49.