E io cerco una casa da dividere con Dio
“E io cerco una casa da dividere con Dio”1
Maria Antonietta Crippa
Perché l’architettura
L’approdo per gradi di padre Costantino all’architettura, matura espressione di un percorso artistico iniziato da pittore, è risposta di incondizionata generosità e di convinta determinazione a una sfida, evidente se si condivide la sua collocazione ai margini, ma partecipe, del grande tracciato di innovazioni del XX secolo: restituire all’uomo contemporaneo, amato come fratello, l’esperienza risanatrice della familiarità con Dio, che gli era stato dato di gustare a lungo nell’orizzonte della sua fertile Franciacorta contadina e nel silenzio della nuda e bianca cella conventuale. Disorientamento, solitudine, aridità di cuore dell’uomo del XX secolo, travolto da guerre di una crudeltà prima ignota e da un’industrializzazione incalzante, che aveva squilibrato millenari assetti insediativi, dovevano essere contrastati e vinti tramite luoghi che offrissero – in spazi, forme, colori e luce – un nuovo alfabeto di segni nella sorgiva, spontanea corrispondenza tra vita e fede, anche con qualche inevitabile strappo a consolidate consuetudini.
Il frate francescano si sentì molto presto irresistibilmente attratto al compito, oltre che assecondato da favorevoli tappe di destino. Riteneva infatti che non si potesse, se non colpevolmente, privare il contesto contemporaneo della dinamica di comunità che ha nome Chiesa e che ha il proprio fulcro spazio-temporale, d’istituzione e d’irradiazione, nell’edificio omonimo. Sacerdote nel 1951 e pittore riconosciuto nello stesso anno, già nel 1955 cominciò a occuparsi dell’insieme di temi chiamati per consuetudine arte sacra; a proporre originali orientamenti sia in campo pubblicistico, collaborando con la rivista bolognese “Chiesa e Quartiere”, sia tramite ideazione e realizzazione di suppellettili liturgiche per importanti architetti, attivi in Milano e in Bologna, come Figini, suo grande amico, Pollini, Gardella, Ponti, Vaccaro, i fratelli Gresleri; a far propri quei principi della riforma liturgica che già circolavano e che avrebbero trovato conferma, a seguito del Concilio Vaticano II tra 1962 e 1965, in un quadro di rinnovamento ecclesiale di grande respiro, per questo segnato da tuttora vivace drammaticità attuativa. Due furono i suoi principali e convergenti obiettivi: costruire chiese nelle quali un massimo di espressività artistica si modulasse entro un registro spaziale di nobile semplicità, a incremento della ‘partecipazione attiva’ del dettato conciliare; salvaguardare il valore di segno dell’edificio, perché costituisse seme di un regno non di questo mondo e tuttavia già in fieri nella comunità in esso raccolta. Gli occorreva dunque coniugare povertà e bellezza, umiltà e splendore, semplicità e saggezza compositiva: polarità tutte che gli consentirono di scansare la diffusa e omologante superficialità estetica del moderno benessere.
Primo modellino in carta realizzato da padre Costantino per la chiesa di San Bernardo di Chiaravalle, in Roma, realizzata poi in forme parzialmente differenti; si vede la forma di una colomba. Pavia, Studio Ricerca Arte Sacra
Non mirò a rendere funzionale e gradevole l’architettura in chiave moderna, alle cui ragioni di essenzialità peraltro aderiva, ma a prendersi cura del suo legame con esigenze spirituali, incalzando responsabilità e destino dei suoi abitanti. Mostrò indifferenza per i messaggi più altisonanti della stagione funzionalista e razionale, della prima modernità internazionale, e di quella più eclettica della successiva fase postmoderna. Fu invece sensibile alla forza poetica di chiese cristiane realizzate da maestri, a partire da Le Corbusier fino a Mies van der Rohe, Tadao Ando, A´lvaro Siza e altri. Al punto da decidersi ad attivare il premio internazionale Frate Sole per dar valore al continuo emergere di chiese cristiane esemplari.
Chiesa di San Bernardo di Chiaravalle, quartiere Centocelle di Roma, disegni di progetto, prospetti e sezione.
Pavia, Fondazione Frate Sole
Non manifestò interesse alcuno per gli essenziali requisiti del costruire dipendenti da tecniche e da tecnologie, il cui rapido incremento è ragione principale fino a oggi di esiti formali di largo successo. In questa autolimitazione, non di poco conto, s’inscrive il ruolo da lui assunto nel progetto d’architettura. Anche indipendentemente dal titolo di studio, un tempo non posseduto da molti che esercitavano la professione, non lo si può ritenere architetto in senso proprio per più ragioni: non ha mai elaborato graficamente un progetto e non ha diretto cantieri, che tuttavia frequentava per comprendere, nel farsi corpo della costruzione, come intervenire con componenti qualificanti. Non ha dunque praticato la razionalità del costruire nelle sue sequenze sia ideative che pratiche, dal progetto generale a quello esecutivo, al coordinamento delle competenze tecniche inerenti, fino agli oneri amministrativi.
I progetti che portano il suo nome emersero sempre da collaborazioni nelle quali egli si implicò in più modi: nella definizione di un appena accennato schizzo planimetrico e distributivo; nel controllo della definizione plastica dei volumi tramite modelli tridimensionali, elaborati talvolta a più riprese; nel progetto di forme libere con valore di ornato; nelle rifiniture superficiali interne ed esterne; nella comunicazione dei significati globali delle sue chiese, in dibattiti e pubblicazioni2. Totalmente suoi furono gli arredi dei poli per la celebrazione, le vetrate, le panche, i confessionali, le suppellettili di ogni tipo, le vesti, le scelte materiche. Visse in prima persona, da interlocutore diretto, il rapporto con la committenza, alla quale si propose sempre come garante dell’intero processo.
Suo criterio procedurale di riferimento, nella ricerca della fusione tra esistere e abitare da lui chiamata “unità ‘spazio uomo’”3, era il lavoro artigianale dei costruttori medievali grazie al quale egli affermò: “La cattedrale si trasformava in scuola, officina, aula politica, forense, culturale e commerciale. Così tra l’artista, gli uomini e la loro impazienza di bellezza si realizzava l’unità”4. Si concepiva dunque, praticando l’architettura, un artigiano-artista di sensibilità medievale, in un pragmatico esercizio ideativo privo di qualsivoglia astrazione intellettuale.
È indispensabile un’ultima precisazione di metodo: fra Costantino ha creduto senza incertezze nell’immagine artistica, nella fioritura in lui di figure, geometrie, segni, nessi tra colori, disegni di macchie, esaltazione delle qualità intrinseche delle più diverse materie. Ha creduto anche con franchezza nella possibilità di condividerla con altri. Senza i tormenti tipici di molti artisti moderni, si affidò al pullulare, nel “mondo della sua anima” come disse5, di un immaginario alimentato contemporaneamente dai due ambiti dell’arte moderna e della fede. Vi colse lampi di luce misteriosa, svelamenti di presenze cui dar nome fraterno o divino, rapporti di consanguineità tra la propria e l’altrui intimità, e tra questa e la consistenza fisica multiforme della natura e del mondo. Lasciò pertanto che questo suo visionario immaginare venisse guidato, in lui, dalla fiduciosa certezza di poter celebrare la bellezza della condizione umana e del cosmo intero, l’una e l’altro segnati dalla resurrezione, in un anticipo di Eden riscoperto e d’innocenza ritrovata. Per raggiungere questo scopo ha attraversato ogni sforzo, con la naturalezza, l’umiltà e la trepida ma paziente attesa del contadino al lavoro nei campi.
Nel processo critico secondo il quale svolgo queste riflessioni, mi sono, per così dire, costretta a partire dall’enucleazione di scopi, limitazioni obiettive e metodo procedurale, caratterizzanti l’attività di padre Costantino nella realizzazione di chiese – dal 1977 fino al decesso nel 2007 – per dare la massima evidenza possibile all’interno rigore del suo lavoro, attuato non solo in serena fedeltà di appartenenza all’Ordine, ma anche nella libertà di rapporti amicali, di cui sono tuttora percepibili gli echi, con i confratelli, gli amici artisti e architetti, i giovani collaboratori, gli artigiani e le committenze.
Negli ultimi trent’anni, inoltre, ormai fisso nell’amata Pavia, egli non sospese le sperimentazioni di pittura e di scultura; le estese anzi e le aprì, oltre che alla fotografia, anche a sviluppi dei quali sono individuabili ricadute importanti nelle sue architetture. Queste ultime sono state da lui concepite, in coordinata unità di componenti a tutte le scale, come segno dell’universo liturgico cristiano. La sua esperienza di frate, sacerdote, arti- sta, artigiano e, se si vuole, di architetto sui generis, risulta dunque del tutto peculiare nella sintesi di accenti umani gioiosi che anticipano l’Evangelii gaudium al quale invita l’attuale papa.
Inevitabili momenti isolati di disagio, nel contesto ecclesiastico conventuale e istituzionale, non intaccarono integrità, docilità e freschezza della fede ruggeriana sempre memore, come egli ricordò evocando un dialogo tra Picasso e Matisse, dell’innocenza della prima comunione6. Con candore, in- fatti, declinò l’opzione per la modernità artistica, in modi che riteneva a sé consonanti, nella radicalità di un’appartenenza francescana nella quale si sapeva chiamato quasi casualmente fin dall’infanzia. Si trattò, per lui, di tenere saldamente unite in sé, senza scivolar fuori dalla ricerca artistica personale o fuori dal suo storico e specifico contesto ecclesiale, le due dimensioni.
In più occasioni ho già esplorato la produzione complessiva di padre Costantino. In due recenti saggi7 in particolare, ai quali rimando senza qui ribadirne i contenuti, ne ho sinteticamente delineato il progressivo e in- calzante ampliamento di esercizio artistico. Vi ho fatto emergere anche la sua geniale assimilazione e trasposizione in linguaggio contemporaneo, di matrice avanguardistica ma piegato a significati biblici e francescani, della religiosità nell’aurorale arte cristiana delle più antiche catacombe romane. Ne fece la premessa per suggestivi messaggi strutturati in grandi e colorate composizioni di vetro antico soffiato.
Modello in bronzo della chiesa San Paolo, in Rho (Milano); il campanile non è stato realizzato. Pavia, Studio Ricerca Arte Sacra
Un’importante annotazione redazionale, a fianco della prima pagina di uno scritto di Ravasi – pubblicato nel 1995, corredato da foto e da una tavola-regesto con quattordici schemi planimetrici di chiese e cappelle, tutte di Ruggeri – mise in luce, da una parte, i “rapporti rigorosi tra gli elementi liturgici, quasi sempre legati da un andamento sinuoso del fondo-spazio, in contrasto con la grande libertà nell’invenzione della forma globale”; dall’altra, il loro totale distacco dal rimando a tipologie tradizionali o a un nuovo modello privilegiato come normativo, a favore di “rapporti di intensità energetica, luministica, coloristica e scultorea degli elementi tra loro interagenti con lo spazio e con la gente”8.
L’autore, certamente Glauco Gresleri9, approfondì l’anno successivo l’interpretazione qui accennata, mettendo a fuoco i termini del passaggio dalla scultura all’architettura, sviluppato da fra Costantino con il sostegno imprescindibile dell’architetto Leoni.
L’originaria emergenza della seconda, nella tridimensionalità dell’unitaria modellazione volumetrica strutturante un primo insieme di problemi statici e costruttivi, era la maquette. L’ordinamento spaziale interno veniva invece sviluppato tramite aggregazione di luoghi liturgici messi in rapporto, tra loro e con i loro sfondi, secondo intuitive relazioni prossemiche. Infine, l’unità spaziale interna era ottenuta dalla mobile intensità luministica, arricchita da trasparenze, delle ampie vetrate, con effetti colorati portati su poli liturgici, soffitto, pavimento e panche, persino persone. L’esito parve a Gresleri un inedito concretizzarsi dell’edificio a partire dai gesti liturgici, miranti a creare una cava e vibrante spaziosità.
Ruggeri volle che i disegni finali delle sue soluzioni, soprattutto in pubblicazioni, fossero ridotti il più possibile a sintetici profili calligrafici, quasi per smaterializzarne la consistenza architettonica; doveva infatti emergervi, in nudità, il volto di un ordine di vita comunitaria che anticipava, nell’allusione dei segni, un mondo spirituale non rappresentabile.
Anche Giorgio Trebbi formulò lucidi giudizi: all’insufficienza di molte chiese moderne – interpreti di un’esaltazione funzionalistica foriera di uno pseudo accademismo normativo e liturgico – contrappose il superiore scatto di creatività, caratterizzata da decisa intensità emozionale, nelle chiese dell’amico frate. Nella sua prima chiesa a Varese colse, con perspicacia, quella che sarebbe divenuta costante ideativa ruggeriana: una concezione volumetrica ‘introversa’ come condizione per la sorpresa dello spazio interno, sempre controbilanciata da consistenti pareti vetrate10.
L’indice di Spazi di luce – libro messo a punto dallo stesso padre Costantino, con scritti propri e di autori amici, per i singoli progetti architettonici, civili e religiosi, già realizzati, in fieri, ancora solo in maquettes – evidenzia sia il significativo processo di maturazione nel progetto da parte dei loro autori, il padre e Leoni, che il senso delle ricerche plastiche del primo.
Dopo l’insieme di undici chiese – a partire dalla prima in Varese (1977) fino a quella nel quartiere romano Centocelle (1988-1993) e alla cappella Moretti, a Erbusco (Brescia) – viene proposta una breve sequenza di interventi diversi tra loro: il restauro dell’eremo carmelitano, o Deserto, a Varazze (1986-1990); la costruzione della Casa per gli amici Lina e Giordano (1976) in Borgo a Buggiano, presso Pistoia (1976); la ristrutturazione, con aggiunta di una cappella di soli 119 mq, del Carmelo femminile di La Spezia. Seguono, nell’indice, i capitoli per le Celle e i Cenacoli, questi ultimi proposti secondo un ordine non cronologico, ambedue corredati da importanti riflessioni di Ruggeri.
Le Celle, già presentate nella Galleria milanese di San Fedele nel 1978 e in un volume del 1982 che ne raccoglieva 28, sono fragili sculture in cartone e altri materiali poveri, che alludono a uno spazio interiore. Qualcuna è contrassegnata dal disegno a parete di un sole o dalla presenza di un minuscolo tavolo, forse un altare, o di piccole masse. “Segni umili e assoluti di uno spazio nascente, espressivo dell’anima e ospitale del cuore”, “spazio mistico più che sacro”, “cuore antico” del “più trasparente e coraggioso futuro”11, esse, insieme alla serie I trasparenti, non esaminati in questo libro ma presenti nella sezione a colori, testimoniano l’aspirazione dell’artista a generare forme, egli disse, “con materie povere come il pane”, prezioso prodotto del lavoro umano che, col vino, ospita la presenza eucaristica di Cristo.
I Cenacoli, luoghi dello spazio mistico mai tradito “anche se in molti casi avrebbe potuto essere più radioso”12, vennero ricavati in spazi o cappelle preesistenti (dal 1966) oppure costruiti ex novo in dimensioni molto ridotte (dal 1970). Presentati in tredici proposte (una è in una casa di civile abitazione), memori della prima, piccola compagnia amicale raccolta intorno a san Francesco, essi sono dono offerto a “un arcipelago povero e felice” di piccole comunità cristiane di base, diffuse in varie parti del mondo a partire dagli anni sessanta. Nell’indice del libro, dopo Celle e Cenacoli, la presentazione dei progetti di chiese riprende con il santuario romano del Divino Amore (1987-1999) e quello giapponese, nel 1996 solo iniziato, aYamaguchi (1993- 1998). Il volume si chiude con maquettes di progetti non ancora realizzati. Celle e Cenacoli vengono dunque incastonati tra due gruppi di chiese, per segnalare, tra due stagioni di progetti, lo scatto di autocoscienza individuato dallo spazio mistico.
A una prima mia verifica, le note critiche di Gresleri e di Trebbi trovano conferma in tutti i Cenacoli realizzati. Ne vanno però aggiunte altre: la rimodulazione altimetrica dei siti quando necessario; l’attenzione ai rapporti col paesaggio circostante; la costante preferenza per volumi interni di altezza molto controllata; la non prevaricazione della specificità delle culture locali; l’utilizzo sempre più virtuosistico delle vetrate e dei loro colorati e mobili effetti luministici.
A titolo esemplificativo, richiamo qui, in breve, tre casi della prima sezione. La chiesa di Santa Maria della Gioia in Varese13, sua prima “creatura”14 allora succursale della parrocchia di Sant’Antonio alla Brunella, ebbe un avvio non semplice, movimentato da membri della comunità non convinti del progetto che però venne scelto, tra i quattro proposti, dall’architetto Luigi Caccia Dominioni chiamato a consulto. L’agitazione si mutò, in fase di costruzione, in calorosa amicizia tra i progettisti, Ruggeri e Leoni, e i committenti, gli impresari, gli operai.
Posizionata su un terreno rimodellato in modo da ricavarvi un ‘golfo mistico’, nel quale un blocco di pietra serviva per celebrazioni all’aperto, la chiesa – in calcestruzzo armato, con capienza di 100 persone e rialzata, come il sagrato coperto, sopra un piano di sale per incontri di comunità – presenta tondeggianti pareti rifinite a bianco intonaco rustico, con una vetrata di più di 100 mq in vetro antico soffiato. La sovrasta un ampio tetto-terrazzo a giardino pensi- le, con ricoveri per la nidifica- zione di uccelli. Dall’ingresso, affacciato su battistero e aula, si viene avvolti in una gioiosa atmosfera costellata da prezioso arredo sacro, in gran parte in bronzo: una vera festa della fede. Monsignor Giovanni Fallani (1910-1985)15 vi riconobbe il messaggio francescano della perfetta letizia, proposto senza la pretesa, allora diffusa e in realtà solo “fatto retorico”, di un “ritorno alle origini”.
Le chiese nelle missioni francescane d’Africa (1979-2001), povere di ornato e ricche di accenni all’abitare locale nel tocco lieve delle soluzioni e nella lealtà del confronto con le popolazioni conosciute, registrano un’umile ricerca, consapevole di rischi e danni della colonizzazione, di legami tra l’universale senso religioso cristiano e il suo prendere corpo nelle singole culture, eco di una presa di coscienza cattolica
giunta a piena consapevolezza nel Concilio Vaticano II, espressa nel decreto conciliare Ad gentes, del 1965, e nell’esortazione Evangelii nuntiandi, del 1975, di Paolo VI.
Disegni di progetto generale per il santuario di San Francesco Saverio a Yamaguchi, in Giappone: collocazione sulla collina, planimetria e sezione. Pavia, Fondazione Frate Sole
L’esplosione del messaggio biblico in imponenti vetrate domina lo spazio interno della chiesa parrocchiale di San Bernardo di Chiaravalle in Roma. Nell’ovale planimetrico il bema in bianco statuario di Carrara, staccato dalle pareti, compatta in blocco unico altare, sede, ambone e battistero. Sull’asse longitudinale esso impone un ordine celebrativo simmetrico e trasversale, contrastato da varie dissimmetrie in una tensione ribadita, all’esterno, nella disposizione di campanile, chiesa, volumi di opere parrocchiali attorno al piazzale, un tempo a prato. All’interno, il pavimento in serizzo grigio, le pareti e il soffitto in pannelli in gesso, tutto in bianco come il bema, catturano, in riflessi a specchio cangianti nelle ore del giorno, la luce colorata delle vetrate che propongono uno straordinario racconto cifrato con fulcro nell’altare16.
L’ultima sezione del libro presenta due santuari: il primo, del Divino Amore in Roma, è prova a grande scala dei principi compositivi messi a punto da Ruggeri e Leoni; nel secondo, il santuario di San Francesco Saverio a Yamaguchi, emergente con due campanili nella collina che sovrasta la città, la proporzione tra pareti piene e vetrate rafforza la consistenza muraria in omaggio, o forse in consonanza, col senso giapponese della luce. Essa, infatti, restando colorata e ricca di messaggi è qui però meno dirompente di quella di molti altri progetti ruggeriani, perché “trattata architettonicamente e in questo senso astratta”, non naturalistica, secondo la felice espressione di Tadao Ando17.
Spazi felici, sensibilità, povertà: volti del mistero cristiano
In brevi accenni ho qui inteso solo stimolare curiosità per le ragioni di procedure non usuali, e tuttora troppo poco esplorate, nei progetti di chiese di Ruggeri e Leoni. Il devastante sviluppo urbano italiano, nel quale quasi tutte le chiese parrocchiali sono inserite e la normale trascuratezza, nella loro generale gestione quotidiana, attentano facilmente alla loro integrità materica e di immagine, che merita invece storicizzazione, rispetto e tutela. Poiché molto resta da comprendere sull’attività di quest’artista francescano, per introdurre ulteriori esplorazioni tratteggio in sintesi, qui di seguito, tre complesse aree tematiche.
In primo luogo, si dovrà scandagliare prossimità e distinzione tra spazio mistico di padre Costantino ed espace indicible di Le Corbusier. Il primo, molti anni dopo l’incontro con il celebre architetto, affermò: “L’emozione mi serrò la gola, sentendo da lui l’espressione [espace indicible] che era da anni il mio ideale, il programma e il traguardo della mia vita”. Quel contraccolpo del 1965 gli fu essenziale, aggiunse: “per aprire del tutto gli occhi sul mondo della mia anima. In questo senso, anche oggi sogno e vedo un po’ con gli occhi di quel grande maestro”18. L’incontro avvenne infatti in un periodo per lui cruciale: nel 1962 aveva concluso la tesi sui primi segni epigrafici cristiani e si era diplomato come scultore; approdato da poco a Pavia, nel 1959, aveva inoltre intensificato l’attività di artigiano-artista per suppellettili e arredi liturgici, già pensando alle chiese. Sotto la pressione di un’immaginazione e di una sensibilità molto allenate, l’incontro con Le Corbusier fu pertanto potente stimolo alla libera effusione del proprio mondo interiore. È noto che il progetto per il sito di Ronchamp fu, a metà del secolo XX, causa di grande e generale sconcerto. L’autore, fino ad allora protagonista di un razionalismo cartesiano per molti aspetti autoritario, chiamò la cappella rondebosse en creux, modellato scultoreo per scavo, e si ostinò, inascoltato, a segnalare due temi cristiani privilegiati: la croce di Cristo, detta “il testimone”, e la maternità della Vergine Maria. Congedando di colpo il tradizionale primato dell’istanza tipologica nel progetto di chiese e corrispondendo, nel contempo, alla riforma liturgica in fieri, la cappella, fusione di prestiti diversi, in sintesi, trasfigurante e quasi alchemica, con la sua emotiva e criptica bellezza scosse mondo cattolico e cultura laica.
Si chiese il teologo Hans Urs von Balthasar: “Ronchamp: perché è diventata un segno cosi importante per noi? […] Da dove viene tanta gioia e speranza in Ronchamp?”19. Sintesi di “immagini dello spazio felice” che “trascende lo spazio geometrico”, direbbe Bachelard20, essa fece vibrare in Ruggeri una sintonia innanzi tutto umana. Scattò forse, in questo nodo d’incandescenza spirituale anticipato già, ma con più tormento, dai padri domenicani Marie-Alain Couturier (1897-1954) e Raymond-Pie Régamey (1900-1996) de “L’Art sacré”21, la sua decisione di affrontare l’architettura, favorita dal capolavoro architettonico lecorbusiano implicato con la scultura e da una strana parentela tra l’indicibile senso del sacro del maestro svizzero e la sensibilità cristiana che Ruggeri coltivava in sé.
Fu l’occasione forse per l’emergere dell’interrogativo sul sacro che sfo- ciò, nel 1978, nella proposta dello spazio mistico con la quale il frate prese prudente distanza dal tema del sacro oggetto della storia delle religioni, molto dibattuto in Europa soprattutto a partire dai contri- buti di Mircea Eliade (1907-1986) dagli anni Cinquanta in poi. Poiché l’uomo è religioso “[…] quando pensa, quando mangia, quando lavora, quando ama, quando sta in famiglia, quando vive l’amicizia, quando soffre. Se è fedele al sacramento della vita è sempre religioso […]”22, carica di mistero divenne, per lui, ogni bellezza percepibile nella luce di una fede semplice, spoglia di preconcetti nei confronti della libertà dell’arte: questo è il centro, credo, dell’eredità che il frate lascia in riflessioni, arte, architetture.
Secondo fulcro tematico ruggeriano, che dovrà essere approfondito, è il perseguimento della realizzazione di chiese come unitari e potenti strumenti sensoriali, in risonanza con il corpo e la spiritualità umana entro le fibre del grande tessuto del mondo. Stupisce l’interna coerenza dell’allargarsi progressivo della produzione artistica di padre Costantino. Nato nel 1925 e morto nel 2007, ha attraversato gran parte del XX secolo assimilando tratti importanti di linguaggi d’avanguardia; ha fatto proprio tutto ciò che aveva sapore di genuina attualità, fosse del suo tempo o antico; è approdato all’interesse per l’architettura passando attraverso un meditato esercizio artigianale; si è prodigato con generosità in costruzione, modifica e completamento di edifici religiosi, dalle cappelle alle chiese parrocchiali. In una costanza di in- tenti subito individuati e sempre mantenuti.
La fiducia nella propria corporea sensibilità sinestetica, forse più tattile che visiva23 e solo all’apparenza povera di spessore concettuale, favorì il suo corpo a corpo, gioioso e carico di emotività, con i materiali. I suoi oggetti portano infatti l’impronta di una manualità oggi quasi scomparsa con il diffondersi dell’industrial design, peraltro non piccola gloria italiana ma sempre più dominato dalle sirene persuasive della strategia pubblicitaria. In decori e suppellettili – ad esempio nei tabernacoli che evocano la madia della casa contadina; nelle pissidi in forma di cestino del pane; nelle croci e nei vetri colorati in blocchi grezzi; nei robusti altari e amboni in marmo; nei morbidi bacini in pietra dei battisteri con acqua viva; nel prezioso uso dell’antico vetro soffiato – e nell’intero organismo architettonico, agglomerato sensoriale sempre diverso, egli affermò “il più di senso” con “un meno di ricercatezza materiale” secondo sensibile, persino naturale contiguità del corpo umano con le cose.
Si giunge per questa via al tema della francescana povertà raggiunta con essenzialità di mezzi e di segni, emersa in una sintesi architettonica in bilico tra spogliazione ed esultanza, tra povertà e gloria, di Dio ma anche dell’uomo, più precisamente del popolo dei semplici che non cessa di rivolgersi a Dio. Lo segnalò con estrema precisione l’amico Fabbretti quando scrisse:
Quella di Ruggeri è stata e continua a essere un’avventura di spirito, di fantasia e di manualità che può essere legittimamente riconosciuta per francescana. È infatti l’avventura della ‘spoliazione’. Diventata sempre più felicemente un nuovo ‘trionfo’ di Madonna Povertà24.
Autentica ‘spoliazione’ nella nudità creaturale, la sua arte restava tuttavia segnata da un’irrisolvibile tensione tra materia e spirito, poiché, proseguiva il confratello:
[…] quale dinamica d’arte, di poesia e fantasia ha mai potuto evitare i conti quotidiani con la contraddizione e l’ambiguità? E d’altronde, per contro, quale autentica opera d’arte non ha tratto proprio da questa misteriosa, penitenziale strettoia, la forza primaria della sua suggestione spirituale?25.
L’arte ruggeriana non poteva essere più precisamente ancorata al vivo ideale francescano; né essere più spregiudicatamente sottoposta alla prova dell’evangelica adorazione “in spirito e verità”, auspicata da molti nella prima stagione della riforma cattolica postconciliare, come riduzione ai minimi termini della corporea materialità di luoghi e riti. A mio parere, padre Costantino si tenne lontano da estremismi e ideologiche aridità perché aveva scoperto il filone aureo della bellezza – amata nella natura e negli uomini, soprattutto in quelli poveri, dal ‘giullare’ e penitente Francesco d’Assisi – nel non smaterializzato bensì densamente materico “ ‘quasi niente’ al quale l’artista dà la dimensione dell’infinito”26. La sua intenzione artistica, indifferente a un’utopica spiritualità, corrispose infatti alla logica dell’incarnazione:
Dobbiamo essere cauti – disse – a non tessere sofismi sulla decantata e incantante ‘povertà’. Povertà è essenzialità, eticità, esaltazione dello spirito. Anche l’oro è ‘povertà’, se usato nella sua verità. Certamente i materiali più semplici e meno costosi, sono anche i più espressivi. E chi non lo sa, dopo che Cristo si è incarnato e transustanziato in un frammento di pane? […] Le ‘cose’ sono poesia. Non trasformiamole in formule27.
Gli si può dunque riconoscere un imprinting profetico radicalmente cristiano, e in questo senso francescano, se si accetta che: “La profezia cristiana deve prefigurare una umanità nuova, non una società alternativa”, dal momento che: “Nel cristianesimo la verità di Dio si vede in un uomo e la verità di un uomo è la verità dell’uomo. Stare nello spazio di questo intreccio è l’impegnativa vocazione della Chiesa”28.
1 Ruggeri fece propria questa frase che un mendicante, in Pavia, scrisse sul manifesto della raccolta fondi per l’annuale giornata per le nuove chiese, in cui campeggiava il messaggio: “Dio cerca una casa da dividere con te”. In C. Ruggeri, L. Leoni, Spazi di luce, LDC, Torino 1996, p. 182.
2 Traggo questi dati da colloqui con l’architetto Luigi Leoni, suo collaboratore principale, ma anche da scambi con gli altri membri della Fondazione Frate Sole, concordi nel riconoscere, in questo processo, il vigore amico di una guida formativa entusiasmante.
3 G. Ferri, Il gesto della spoliazione. Costantino Ruggeri francescano e architetto, La Locusta, Vicenza 1980, p. 56.
4 Ivi, p. 57.
5 C. Ruggeri, in N. Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore. Genesi di un artista cristiano, Dies, Milano 2001 (I ed. 1990), p. 72.
6 Ivi, p. 20.
7 M.A. Crippa, Pittura, scultura e architettura nell’arte di padre Costantino Ruggeri, in “Rivista dell’Istituto per la Storia dell’Arte Lombarda”, 12, 2014, pp. 35-58; M.A. Crippa, Fra Costantino Ruggeri e il sapere dei segni cristiani, in “Rivista dell’Istituto per la Storia dell’Arte Lombarda”, n. 25, 2018, pp. 7-28.
8 G. Ravasi, L’incontro tra i fratelli per l’incontro con Dio nel tempo, in “Parametro”, marzo-aprile 1995, pp. 18-25.
9 G. Gresleri, Costantino Ruggeri o dell’alternati- va mistica, in Ruggeri, Leoni, Spazi di luce cit., I-X.
10 G. Trebbi, in Ruggeri, Leoni, Spazi di luce cit., pp. 18-19, senza titolo.
11 Le celle, testo di C. Ruggeri, La Locusta, Vicenza 1982.
12 C. Ruggeri, in Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., p. 69; ivi, per i Cenacoli pp. 67- Anche: I cenacoli, testo di C. Ruggeri, Dies, Milano 1985.
13 S. Maria della Gioia, testo di G. Fallani, Arti Grafiche Barlocchi, Quinto de’ Stampi (Milano) 1981.
14 C. Ruggeri, in Fabbretti (a cura di), Soltanto un fiore cit., pp. 74-79.
15 Vescovo che ha dato importanti contributi su problemi di arte sacra e di tutela dei beni culturali ecclesiastici.
16 Per l’analisi dei temi biblici cfr. G. Ravasi, In una tenda di luce, in Ruggeri, Leoni, Spazi di luce cit., pp. 138-145.
17 Scrisse Ando, richiamando la sua Chiesa della luce: “In Occidente lo spazio sacro è trascendente, mentre ritengo che in qualche modo esso debba venir posto in relazione con la natura […] trasformata dall’uomo […] architettonicamente mutata”, in questo senso astratta. In Ruggeri, Leoni, Spazi di luce cit., 295.
18 Ruggeri, Soltanto un fiore, cit., p. 73.
19 Si veda F. Caussé, M.A. Crippa, Le Corbusier. Ronchamp. La cappella di Notre-Dame du Haut, Jaca Book, Milano 2014.
20 G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1975, pp. 25, 73; anche M.A. Crippa, Provocazioni della materia in architettura: dialoghi con Bachelard, in F. Bonicalzi et alii, Bachelard e le ‘provocazioni’ della materia, Il Melangolo, Genova 2012, pp. 327-333, e Eadem, Avvicinamento alla storia dell’architettura. Racconto, costruzioni, immagini, Jaca Book, Milano 2016.
21 Si veda M.-A. Couturier, Un’ avventura per l’arte sacra, a cura di M.A. Crippa, Jaca Book, Milano 2012.
22 Dall’intervista di N. Fabbretti, in “Gazzetta del popolo”, 27 dicembre 1979.
23 Sul tema J. Pallasmaa, Gli occhi della pelle. L’arte e i sensi, Jaca Book, Milano 2007.
24 N. Fabbretti, Lotta con l’angelo, in Ferri, Il gesto della spoliazione cit., pp. 8-9.
25 Ivi, p. 9.
26 P.C. Ruggeri, Incontro con padre Costantino Ruggeri, il 2 giugno 1979 a Pavia, nella sua officina, in Ferri, Il gesto della spoliazione cit., p. 57.
27 Ivi, p. 54.
28 G. Zanchi, Rimessi in viaggio. Immagini di una Chiesa che verrà, Vita e Pensiero, Milano 2018, 157.