Incontri, volti, esperienze

Luigi Leoni

Un tratto peculiare di padre Costantino era la gioia nel tessere rapporti di amicizia e condividere esaltanti esperienze artistiche. Come san Francesco d’Assisi visse in comunione con i fratelli, così padre Costantino, quando si decise per un cammino di evangelizzazione attraverso l’arte, amò circondarsi di uomini che, condividendo le sue aspirazioni, si cimentassero con lui nello stesso impegno. Non disdegnava alcun legame, si coinvolgeva anzi con uomini e donne delle più diverse estrazioni sociali e culturali, pur di costruire percorsi di dialogo, realizzare fraternità d’elezione e far maturare l’indirizzo artistico e di fede intravisto. Nel dopoguerra, trovandosi a Milano nel fervore di un generale risveglio di speranze, egli frequentò studi di pittori, scultori e architetti, che gli indicavano, con le loro opere, una direzione dell’arte moderna rispondente anche ad alti valori dello spirito: Mario Sironi, Luciano Minguzzi, Giorgio Morandi, Lucio Fontana, Carlo Carrà, Roberto Crippa, Luigi Figini e Gino Pollini, Filippo De Pisis, Arturo Tosi, Marino Marini, Bruno Cassinari, Giorgio de Chirico, Emanuele Cappello, Sergio Dangelo, Ottone Rosai. Ogni forma d’arte lo affascinava; era attratto anche dalla musica e dalla poesia: fu amico di Salvatore Quasimodo e di Eugenio Montale. Un’attenzione particolare riservò ai giovani. Dopo l’esperienza negli oratori di Milano negli anni Cinquanta, nel convento di Canepanova a Pavia, a partire dagli anni Sessanta avviò, con il gruppo dei ministranti per il servizio liturgico, un percorso che fosse per loro di crescita, impegnandoli anche nella modellazione della creta, nella preparazione di modelli in gesso, nella costruzione di plastici in legno e cartone, nell’esecuzione di ceramiche. Costituì nella veranda storica del convento, un tempo casa nobiliare quattrocentesca costruita su fondazioni medievali, un laboratorio d’arte, fucina di opere che prendevano vita sotto la sua regia sapiente. Allo scopo gli fu necessario entrare in contatto anche con ditte e figure esterne al convento: per le opere in bronzo ebbe rapporti con la fonderia De Andreis di Quinto de’ Stampi (Milano); per le finiture della suppellettile sacra coi fratelli Aldo e Leopoldo Giampieri di Roma. In Pavia frequentava anche vari laboratori di falegnami, di fabbri, di artigiani per realizzare le opere in legno, in ferro e in acciaio, come Gambuzzi, Camillo Fraschetti, Vincenzo Mangiarotti, Rino Roveda. Gli giovò in città la frequentazione di gente semplice e famigliare, che gli faceva rivivere il fascino mai dimenticato del paese natale di Adro e della vita nei paesaggi della Franciacorta, prossimi al lago d’Iseo. Conservò soprattutto un forte legame con la madre Rosina e il padre Angelo. Nella casa dove era nato veniva tenuta a sua disposizione una stanza così che, quando gli era possibile, potesse soggiornare presso i suoi. Nella casa dei genitori abitava anche il fratello Luigi con la moglie e le figlie. Tra loro egli ritrovava il calore domestico lasciato quando, ancora bambino, decise di entrare in convento. Tuttora in quella dimora sono conservati vari suoi quadri e un affresco.

Il padre con l’amico architetto e i collaboratori dell’atelier: Luigi Leoni; Massimo Ravazzano; Carmen Romagnano; Chiara Rovati; Andrea Vaccari; Ignazio Breccia Fratadocchi

Ebbe amici Lina e Giordano Ercolessi che, conosciuti tramite padre Nazareno Fabbretti e padre Davide Maria Turoldo, possedevano un bel negozio di penne stilografiche a lato del duomo di Milano. Avendo in cuore di ritirarsi in un luogo di pace, chiesero al padre il progetto per la loro casa tra gli ulivi della Toscana. A Barolo, in località Vergne, tra i vigneti delle Langhe, Milena e Aldo Vaira gli chiesero la realizzazione di vetrate per la loro cantina; gli si affezionarono al punto da affidargli successivamente anche il progetto per l’ampliamento della loro azienda agricola. A Torino gli fu cara l’amicizia con Ernesto Olivero, che lo chiamò per la realizzazione della cappella nel Sermig, l’Arsenale della pace da lui trasformato, da fucina per la fabbricazione di armi, in luogo di accoglienza aperto a tutti. Don Lorenzo Tous gli manifestò la propria ammirata devozione nel chiamarlo a progettare la cappella iemale della cattedrale di Palma di Maiorca e, successivamente, una chiesa a C’an Picafort, nella stessa isola. A Pavia il frate artista visse anche momenti forti di interiorità. Su una parete del suo studio sopra il coro della chiesa, negli anni Novanta segnò questa frase: “beata solitudo”. Visse momenti di intensa riflessione nel proprio atelier d’artista che, nel tempo, ampliò con altri spazi: i locali cantinati, dove si custodivano in deposito le lastre di vetro antico soffiato; i vani quattrocenteschi al primo piano, dove si svolgeva l’attività artistica; ancora più in alto nell’ex granaio del convento, il suo studio personale esteso fino ai sottotetti. Fu coinvolto per interventi in santuari, conventi, monasteri, quali, ad esempio: il Deserto di Varazze dei Carmelitani, il monastero di Clarisse a Chiavari, il Santuario della Verna, il monastero delle Carmelitane a La Spezia, il convento francescano San Romolo di Figline Valdarno, il convento francescano della Brunella a Varese. In molte parrocchie italiane fummo chiamati per erigere più di trenta chiese nuove e numerosi arredi o adeguamenti liturgici di presbiteri.

Ogni situazione era occasione per lui di testimonianze fraterne, di messaggi forti non disgiunti dall’esperienza lavorativa anzi avvalorante, per il fascino delle sollecitazioni che egli riusciva a stimolare durante le fasi di progettazione e realizzazione delle opere. Lo scambio – di valutazioni, visioni e prospettive – non era interrotto neppure nei momenti conviviali, sempre ricchi di amabili e sapienti colloqui. Quando affrontava un tema a lui caro, anche grazie alla sua voce calda e convincente, tutti si facevano attenti. Era una grazia condividere queste esperienze umane e professionali. In modo prodigioso e inaspettato emerse nel tempo la possibilità di viaggi in ogni continente, segnati da incontri sempre diversi e da un interminabile susseguirsi di occasioni, eventi, avventure per la costruzione di nuove chiese e di cicli di vetrate artistiche. Il clima sorprendente nel quale le abbiamo vissute merita di essere qui brevemente richiamato per alcune occasioni: a Roma, in Africa, in Giappone, in Terrasanta. Fu un miracolo quanto accadde dopo che egli era stato chiamato a tenere una conferenza sul Beato Angelico a Roma, con la quale incantò gli uditori. Convinse, tra i presenti, don Gianfranco Mori, sacerdote della parrocchia romana di San Bernardo di Chiaravalle, che gli affidò l’incarico di edificare un nuovo complesso parrocchiale nel quartiere di Centocelle. A costruzione conclusa e dopo la sua consacrazione, la chiesa venne visitata da san Giovanni Paolo II che, incontrando il padre, commentò: “Nel Medioevo l’uomo costruiva grandi cattedrali in altezza per elevarsi al cielo; le chiese contemporanee parlano di un Dio che è sceso sulla terra”. Roma ci riservò di lì a poco una sorpresa ancora più grande. Nella commissione d’arte sacra del Vicariato di Roma che aveva approvato il progetto per Centocelle, un suo membro, l’ingegner Ignazio Breccia Fratadocchi, ne colse la bellezza. Fu lui a sollecitare don Pasquale Silla, rettore del santuario del Divino Amore sull’Ardeatina, a chiamare padre Costantino per la realizzazione di un nuovo santuario. Don Pasquale accettò il consiglio. Era l’anno mariano 1987 ed erano trascorsi più di quarant’anni da quando, nel 1945, i cittadini romani avevano fatto voto alla Madonna di costruire un nuovo grande santuario per la salvezza di Roma. Abbandonate le idee monumentali dei precedenti progettisti, il padre immaginò una casa di campagna per la Madonna, nella valle al di fuori delle mura contornata dalle morbide movenze dei colli. Lì egli vide il nuovo santuario che subito ci apprestammo a modellare in plastilina. Suor Rosaria, che prestava servizio nella casa del pellegrino, dove eravamo ospitati quando io stendevo i disegni su lucido, una mattina mi riferì che don Umberto Terenzi, sacerdote fondatore della sua Congregazione, in sogno le aveva confermato l’opportunità della scelta del luogo. In realtà l’area individuata, essendo agro romano, non era edificabile secondo il piano regolatore vigente; ci parve dunque di esserci impegnati in un’impresa inattuabile. Tuttavia, ancora una volta, quando il padre fu chiamato a tenere, insieme a don Silla, una conferenza all’Università Gregoriana, fu molto convincente nel tratteggiare il progetto. Colpì nel segno e ottenne il proprio scopo quando disse: “Fuori dalla torre del primo miracolo, verso valle, sollevo una zolla di terra e al di sotto ricavo una grotta azzurra”. Ne avemmo conferma quando, il 2 novembre 1987, ci recammo dall’assessore all’urbanistica del Comune di Roma che ci accolse con l’augurio: “Benvenuti! Quando ero bambino mia nonna mi conduceva al santuario del Divino Amore”. L’omaggio a Maria, nella conferenza del padre, aveva colpito lui e mobilitò tutto l’ufficio che, entro la mattina, trovò la soluzione per consentire la realizzazione del nostro progetto in deroga al piano regolatore vigente. Entro il 31 dicembre dello stesso anno arrivò infatti l’approvazione comunale. Intensa, per le persone incontrate, è stata anche l’esperienza africana. I frati minori della regione ligure avevano aperto nel 1970 una nuova missione in Burundi. A Kayongozi, a duecento chilometri dalla capitale Bujumbura, essi avevano appena costruito un convento al quale mancava la chiesa. Nel 1979 chiesero a padre Costantino la disponibilità a intraprendere un viaggio per valutarne la realizzazione. La salute del padre non era molto buona, ma egli accettò l’invito. Nella diocesi di Ruyigi conobbe il vescovo Ruhuna, che lo invitò a percorrere tutta la diocesi per avere consigli utili al proprio ministero. Anch’io lo conobbi, quando venne a Kayongozi per una visita pastorale, e ne apprezzai la bontà d’animo e il coraggio evangelico. Ne sarebbe stato eroico testimone di lì a poco, divenendo martire nelle lotte tribali. Indimenticabile fu l’incontro con il Giappone, dove ripercorremmo l’epopea di evangelizzazione che, come vento impetuoso, avevano vissuto nel XVI secolo i primi compagni di sant’Ignazio di Loyola.

Il padre con gli amici del mondo dell’arte e di quello ecclesiastico: Lucio Fontana; Guido Ballo; Gianfranco Ravasi; Davide Maria Turoldo; Cesare Angelini; Luigi Figini

A Yamaguchi, città a sud della grande isola di Honshu, megalopoli famosa per aver dato i natali a eminenti figure della politica e della cultura nazionale, san Francesco Saverio aveva posto le basi di una comunità cristiana, con l’ardore di san Paolo nei primi decenni dopo Cristo. Cinquecento anni dopo l’evangelizzazione gesuitica, trovammo qui la più fiorente comunità cattolica di tutta la nazione nipponica. Vi aveva svettato a lungo, sulla cima del colle sovrastante la città, un santuario con due torri che, come fari di luce, annunciavano Cristo risorto. Un grande incendio, all’inizio degli anni Novanta, aveva distrutto tutta la costruzione in legno. Superiore del convento di Yamaguchi, ormai privo della chiesa, era il missionario gesuita padre Domenico Vitali. Essendo venuto a Milano per chiedere ai confratelli del Centro culturale San Fedele nominativi di progettisti adeguati, gli venne suggerito di incontrare fra Costantino, loro amico e ottimo artista e architetto. L’ultimo dono per noi fu la possibilità di operare in Terrasanta, terra ove san Francesco, al tempo delle crociate, incontrò il Saladino. Ci capitò di essere lì immersi nel dramma di una terra sempre contesa tra popoli, spettatori di azioni di guerra al tempo dell’Intifada. Nella Custodia di Terrasanta incontrammo i figli di san Francesco chiamati da ogni parte del mondo a essere rappresentanti di ogni popolo cristiano, grande famiglia che da otto secoli tiene viva lì la fede dei cristiani.

A Betlemme fummo ospiti di una comunità conventuale formata da frati giovani che si preparavano al sacerdozio. Nel refettorio potevamo vedere i loro volti, gioiosi e aperti alla speranza, accanto a quelli dei frati anziani ricchi di esperienza: ci facevano respirare aria di purezza e di amore in un mondo lacerato da odi e contrasti. Allora, all’inizio del secondo millennio, padre Costantino gioiva con noi ma, carico d’anni, iniziava anche a denunciare fatica nei viaggi. Con Chiara Rovati, come me architetto, svolsi qui numerosi sopralluoghi necessari per eseguire una nuova cappella dedicata alla Madre di Dio e per restaurare la Grotta della Madonna del latte, che inaugurammo con il custode di Terrasanta, padre Pierbattista Pizzaballa. Si erano intensificati anche i rapporti con i padri del convento di San Salvatore e della Flagellazione di Gerusalemme, presso lo Studium Biblicum. Alla Via Dolorosa ci incontravamo spesso con padre Michele Piccirillo, il celebre frate archeologo che ci affidò vari progetti in Israele, Giordania e Siria, dei quali discutevamo con padre Costantino.

Ricordo infine che, se già in anni giovanili egli aveva condotto importanti viaggi per conoscere direttamente opere d’arte e di architettura contemporanee in uno dei quali incontrò personalmente Le Corbusier, in Pavia, grazie all’istituzione del Premio Internazionale Frate Sole, egli riuscì a portare i più celebri architetti costruttori di chiese cristiane, come Tadao Ando, A´lvaro Siza, Richard Meier. Nel dare l’estremo saluto a padre Costantino, per il quale composi il 25 giugno 2007 un testo in ricordo del cammino percorso insieme, mi fu chiaro come esso fosse stato tracciato dallo Spirito Santo, in un crescendo di prodigiose tappe.

Il padre con architetti e amici-committenti:
Le Corbusier; Tadao Ando; Vittorio Moretti; Famiglia Vaira; Coniugi Ercolessi; Ernesto Olivero