Padre Nazareno Fabbretti, un’avventura condivisa
Chiara Rovati
Padre Nazareno Fabbretti svolse il compito di divulgare opere e pensiero artistico di padre Costantino Ruggeri, legandosi a lui con un’amicizia profonda, ammirandone l’attività e l’impegno creativo. Nello Studio Ricerche Arte Sacra nel convento di Canepanova, portava con sé una macchina fotografica che utilizzava per documentare le opere del confratello destinate a cappelle, chiese e santuari. Sapeva coglierne il fascino di autentica espressione di un animo francescano, singolare nell’intendere la povertà, l’essenzialità di forme lontane da rivisitazioni di linguaggi arcaici e di manierismo, l’amore per la verità e la semplicità. Gioiva della natura cantata nelle vetrate artistiche, della materia trattata in modo vigoroso.
In occasione dell’ottavo centenario della nascita di san Francesco, padre Nazareno condivise con il confratello la realizzazione di una cartella di ventiquattro tavole, eseguite da padre Costantino, dedicate ai compagni del santo e commentate con brani scelti da fonti francescane. Con lo stesso criterio composero insieme anche il volume Quivi è perfetta amicizia, arricchito da ulteriori venti personaggi e testi biografici. Non ci è noto come essi pervennero a identificare i vari personaggi e a decidere per l’inserimento di figure contemporanee come Gandhi, don Orione, Madre Teresa di Calcutta.
In alcuni articoli padre Nazareno ha riconosciuto nel ritratto di san Francesco realizzato da padre Costantino “una delle interpretazioni più intense e fedeli psicologicamente e spiritualmente: il volto di Francesco per l’uomo d’oggi e di ogni tempo”. Durante una sosta forzata per motivi di salute, Ruggeri si rivolse al confratello per la costruzione di un’autobiografia. Prese allora corpo un’intervista vivace con la pubblicazione del libro Soltanto un fiore. Genesi di un artista cristiano, in cui si avverte la grande amicizia che si era andata consolidando tra loro anche per la profonda comprensione delle peculiarità di carattere, pensiero e realizzazioni del frate artista da parte dell’amico. In esse padre Nazareno vide “una risposta vissuta, non teorica, alla riforma liturgica conciliare e all’inventiva libera e fedele che il ‘nuovo tempio’ esige da ‘adoratori che adorino in spirito e verità’ ”.
1964
Sui muri delle chiese la beatitudine della povertà
“Fiamma Nova”, a. XXIX, n. 12, dicembre 1964
Sembra che non voglia parlare, ma basta saper insistere perché le sue parole tocchino i pensieri come le sue mani toccano il marmo, la creta, il cristallo, il cemento e l’acciaio: con delicata fermezza, con passione ed amore. È un pittore che ha vinto due premi — il San Fedele e il Marzotto — ma è un frate che da parecchi anni ha messo in disparte la pittura, per dedicarsi al problema generale dell’arte sacra in Italia. Non appartiene a scuole o a cenacoli, pur non essendo affatto selvatico.
Solo che il tempo non gli basta mai per fare, cioè per offrire gli ‘argomenti’ più dimostrativi di quello che cerca, di quello che vuole. È amico di architetti coraggiosi come Figini, e di maestri come Minguzzi, che venera sconfinatamente ed ammira; ma non lo troverete mai a ‘vernici’ o a incontri di squisita cultura. Ha da fare, e fa, dalla mattina alla sera.
Ritorno alle catacombe
Solo quando lo si provoca, si serve anche delle parole. Dapprima comincia con esitazione; poi si scalda, e le cose che dice finiscono per splendere come i famosi cristalli policromi delle sue ardite vetrate. È stato ascoltandolo, in uno di questi pomeriggi ottobrini, che mi è venuto il desiderio di scrivere una specie di ‘salterio dell’arte sacra del nostro tempo’: basterebbe raccogliere e ordinare le cose che Padre Costantino Ruggeri dice; si avrebbe la spiegazione più appassionata e documentata di tutto quello che fa. Magari lui non se ne rende affatto conto, ma a Pavia, nel convento francescano di Canepanova, dove abita da anni, è cominciata la fase più coerente e coraggiosa della ‘rivoluzione’ dell’arte sacra italiana. In questo senso gl’interessano pittura e scultura, architettura e liturgia. L’arte sacra, per questo frate bresciano di pelo rosso e di occhi chiari, è un ritorno all’essenza espressiva delle catacombe, con in più la luce. Ma è anche un ritorno alla povertà: povertà come virtù, come condizione di spirito, come limpidezza interiore per leggere e decifrare il segreto delle cose, della luce come della materia; povertà nei muri e negli spiriti. Solo a questa condizione è possibile, secondo Padre Costantino, fare chiese che aiutino a pregare, e farsi capire ed accettare subito da tutti coloro che vi debbono pregare insieme, clero e popolo.
“Capisci che la chiesa di pietra può diventare un ostacolo alla Chiesa viva formata dalla comunità dei fedeli? – mi dice cominciando il suo meraviglioso sfogo – Certe chiese moderne (chiese alla moda e basta) possono compromettere per lungo tempo la penetrazione evangelica nella società contemporanea. Anche il mondo dei ‘miracoli economici’, nonostante le apparenze, quando si avvicina a Dio, non desidera affatto di ritrovarsi tra i piedi le pompe, le ricchezze, le bardature, cioè le ipocrisie che ha già incontrato nella vita quotidiana: vuole e cerca l’assoluto contrario: la semplicità, l’essenza, il segno materiale minimo che lo aiuti ad elevarsi al piano del mistero e a respirarvi, cioè a pregare. I muri stessi della chiesa devono poter predicare a questa gente affamata e assetata di spirito e di bellezza le beatitudini: povertà, purezza semplicità”.
Padre Ruggeri è un povero che s’è fatto ancora più povero indossando, fin da bambino, il saio francescano. Il criterio della sua arte è anche l’impegno della sua vita di sacerdote e di religioso. Nelle due cappelle che finora ha potuto plasmare, almeno in parte, secondo i suoi sogni (la chiesa e la cripta del seminario a Mantova, la cappella dello studio francescano, a Varese) dimostrano che il suo spirito ed il suo criterio si sono fusi alla perfezione, e che i talenti estetici hanno sorretto ed espresso le intenzioni rinnovatrici e liberatrici del giovane francescano. La pala d’altare della cappella dell’Aeroporto di Linate, la vetrata della Chiesa di Pioltello, presso Milano, la grande croce di cristalli policromi alla Madonna dei Poveri, a Milano, sono già documenti più che qualificati d’una coerenza e d’un’essenzialità che trova le sue radici nel Vangelo. Padre Ruggeri è nato ad Adro, presso Brescia, ed ha sempre seguito, in questi anni, una linea che è andata crescendo in rigore e significato religioso.
Lui, la luna l’aveva già vista
Quando cominciò a dipingere, i frati si scandalizzarono, davanti ai suoi ‘mostri’; poi lo lasciarono fare, prendendolo per un ‘fissato’; ma presto hanno dovuto arrendersi, davanti all’interesse della critica, ai riconoscimenti delle giurie, al crescere dei committenti. D’altronde, le mostre che il frate pittore ha tenuto a Genova, a Milano, a Biella, a Brescia, significano che non si tratta di uno che segua una ‘moda’, ma esattamente del contrario: di un artista e di un sacerdote che ha qualcosa da dire di veramente suo, e solo in quel modo riesce a dirlo.
Se gli verrà dato, come si spera, di poter lavorare alla nuova cappella del seminario regionale di Bologna, e quando si vedranno le opere da lui concepite, in collaborazione con l’architetto Figini, per la nuova grande chiesa che Milano intende offrire a Paolo VI, si avrà effettivamente la misura del talento, dell’ispirazione e della fedeltà di questo artista solitario e schivo ai moduli più interiori che esteriori della propria arte. Il suo discorso non è senza polemica; ma per non dar nelle nuvole Padre Costantino offre la sua opera, ciò che finora ha fatto, ciò che intende fare. Quando ha visto le foto della luna scattate dal Ranger VII, si è accorto d’aver trattato la materia, nelle pareti dei suoi tabernacoli di bronzo dorato, come se la luna lui l’avesse già vista: la stessa materia, le medesime modulazioni; come dire la esecuzione del motto dell’Apocalisse: “Terre nuove, cieli nuovi…”. E tutto in semplicità, senza vanto, senza provocazione.
Solo quando vede chiese opulente e assurde, brutte oltreché inutilmente ricche, il frate mite perde le staffe: “Certe chiese monumentali servono più la vanità degli uomini, la loro brama di potenza esibizionista, la loro sete di denaro, che la gloria di Dio e la gioia dell’uomo. Dio, mediante l’Incarnazione, ha scelto, non a caso, la condizione di povero, un’umile dimora: e il tempio cristiano, che lo offre crocifisso all’adorazione dei fedeli, non può essere mai troppo ricco senza tradire in qualche modo questo mistero perenne. Quello che dico l’ho ritrovato in San Basilio, in San Giovanni Crisostomo, non sono novità. Ma sono cose dimenticate, e non è male ricordarle. Ad esempio: una chiesa ricca in un quartiere povero: è una bestemmia, secondo me. Soprattutto se si tratta delle ‘chiese dei padroni’. La chiesa deve essere bella, ricca di bellezza, non di materiali provocatori. Di solito, più una chiesa è materialmente ricca, più è brutta. Basterebbe guardare la povertà luminosa delle nostre chiese più antiche, per far sì che l’uomo del nostro tempo ritrovi la sua casa nella Casa di Dio”. Su questo tema, è difficile fermarlo: “Il lusso nella casa di Dio! Impariamo a onorarlo come desidera, non come immaginiamo che desideri. Facciamo delle chiese povere, semplici, luminose, austere, ma vive e vere. La liturgia comincia da questa forma di bellezza viva. La funzione liturgica ha senso, del resto, se favorisce l’incontro e il colloquio con Dio, non se ribadisce un classismo sociale e religioso addirittura accanto all’altare”. Tutto quello che dice, Padre Ruggeri lo fa, cerca di farlo, E chi gli ha dato libertà di fare non si è dovuto pentire. Il Vescovo di Mantova gli ha confessato che nella cappella del seminario prega bene, che le cose del ‘frate informale’, come lo chiamano per scherzo, ‘stanno su’, vanno bene. E i seminaristi sono entusiasti. È questo che conta. Il resto lo diranno, sempre più, a raggio nazionale ed internazionale, i fatti di questo candido ed appassionato francescano.
1965
L’opera di frate Costantino Ruggeri
“Chiesa e Quartiere”, n. 32, gennaio 1965
Ad accostare l’opera artistica di Padre Costantino Ruggeri, l’elemento che subito sorprende e persuade è quello dell’unità di tutti gli elementi, la corrispondenza formale e funzionale fra le opere singole e il complesso dell’edificio di cui fanno parte. Trattandosi di chiese, la conseguenza evidente è il valore liturgico, immediato, dinamico, esemplificatore. È evidente che ciò non si risolve in una ricerca e in un esperimento personale. Esperienza e ricerca sono, in Padre Ruggeri, un punto complesso di partenza, più che un punto d’arrivo. Se polemica c’è e inevitabilmente c’è in un’opera del genere, essa scaturisce dai fatti, dalle conclusioni, da un dato stile e da un preciso linguaggio. Stile e linguaggio pongono necessariamente una serie di confronti il cui valore stimolante non può sfuggire a nessuno. Non è detto che Padre Ruggeri non si ponga in posizione polemica – quanto meno di discussione e di rifiuto davanti a tutto un malcostume d’arte che si ostina a chiamarsi sacra – ma non polemizza mai per la polemica in sé, non accetta mai che le parole possano in qualche modo supplire ai fatti.
Padre Ruggeri non s’illude sull’utilità delle diatribe accademiche in cui possono essere affrontati i problemi più delicati ed urgenti dell’arte in genere e dell’arte sacra in specie. Un caso, dunque, che va accostato tenendo conto, prima di tutto, di una condizione fondamentale, che non supplisce certo ai talenti, ché non ce n’è bisogno, ma che spiega la forza d’immedesimazione di questi talenti nella realtà della materia trattata da una parte e nel contesto liturgico più coraggioso dall’altra: il fatto che Padre Ruggeri è un sacerdote ed un francescano.
Egli non s’è mai accostato a un’opera senza avere meditato il problema complessivo dei rapporti con gli ‘altri’ (in questo caso, con Dio e con i fedeli). Gli ‘altri’, tuttavia – lo si avverte chiaramente nelle cappelle che Padre Ruggeri ha potuto plasmare con una certa libertà d’azione – non sono tanto i credenti, quanto i non credenti. Alcune ragioni e giustificazioni fondamentali dell’opera di Padre Ruggeri acquistano – in questo clima di Concilio e di riforma liturgica – un aspetto ed un valore ‘ecumenici’, in quanto il tempio cristiano, adeguandosi all’anelito di un’epoca, proprio mentre si articola nel mistero e nel dialogo preciso della liturgia cristiana, si dilata, in un dialogo che può essere sempre aperto a tutti gli uomini. La chiesa come l’ha compresa e la plasma Padre Ruggeri non risulta affatto il luogo dove non di rado, in buona o in mala fede, per secoli, si è espresso, più che l’intimità della famiglia cristiana, un certo insopportabile “classismo (se non razzismo) religioso”: il classismo dei privilegiati della verità, a scorno e umiliazione dei privati dello stesso dono. Le pietre di molti templi, anche ineccepibili dal punto di vista di un’estetica valida per se stessa, sono diventate, nelle mani di alcuni, armi con cui lapidare la fede, la speranza, la tristezza e il dubbio di chi non crede abbastanza, di chi osava dubitare o non unirsi al canto cristiano dell’adorazione.
Entrare nelle cappelle curate da Padre Ruggeri, significa mettersi in contatto con una realtà che può non essere compresa, accettata e condivisa, ma che non punta mai sull’ambiguità, che non fa mai un discorso allusivo, che non strizza mai l’occhio agli iniziati per costringere il ‘profano’ a sentirsi il più straniero possibile proprio nella casa del ‘Dio ignoto’. Le chiese di Padre Ruggeri non sono mai, insomma, chiese per privilegiati, ma piuttosto chiese per responsabili, chiese per credenti liberi e consapevoli.
Padre Costantino Ruggeri non è un artista che abbia improvvisato un modulo e uno stile per aver fiutato in anticipo l’inevitabile orientamento dell’arte e della liturgia in futuro. La sua opera è frutto di una silenziosa fedeltà all’ispirazione stessa dell’adolescenza ed alla fatica della maturità. Partito dalla scuola di Mario Sironi, ed espressosi soprattutto, fino al 1959, in opere di pittura, con gli anni si è andato decantando e orientando sempre con maggiore passione verso l’arte sacra come responsabilità del tempio cristiano.
Come pittore, dopo aver esposto in numerose mostre personali, da Genova a Milano, da Brescia a Roma, da Mantova a Varese, è entrato nella valutazione della critica ufficiale con risultati che a un artista poco esigente sarebbero potuti apparire più che lusinghieri. Non sono mancati due notevoli premi, come il Marzotto ed il San Fedele (questo diviso ex aequo con altri), ambedue del 1954: e nemmeno è mancato l’interesse della critica straniera. A questo punto, Padre Ruggeri ha posto la pittura in secondo piano, ed è partito alla conquista (non vi sono altre parole adatte) di alcuni spazi in cui gli fosse finalmente possibile esemplificare al massimo il concetto che in lui era venuto maturando di Domus Dei. Tali spazi, per ora, li ha sempre dovuti accettare prefabbricati, con situazioni topografiche e condizioni di luce obbligate; ma anche entro questi limiti (com’è successo per la Cappella del Seminario di Mantova e per quella dello studio francescano di Varese) il francescano è sempre riuscito a dire quasi tutto quello che voleva. I risultati non sono stati soltanto di conferma formale, ma anche di felice ‘proselitismo’ negli stessi ambienti ecclesiastici, che, come tutti sanno, sono sempre i più tenaci ad arrendersi, i più felicemente schiavi del cattivo gusto. Il Rettore del Seminario di Mantova (e lo stesso Vescovo di quella città), i superiori di Varese, i seminaristi, i giovani studenti francescani sono stati i primi e più qualificati testimoni della riuscita dell’esperimento artistico liturgico di Padre Ruggeri. Tutti hanno affermato che nelle sue cappelle ‘si prega’ e che le sue ‘cose’ reggono. Ammissioni, per chi conosca il gusto prevalente in certi ambienti, addirittura ‘rivoluzionarie’. Segno, comunque, che l’eloquenza dei fatti è sempre superiore a ogni logica polemica. Ma dare opere compiute, dimostrare come, ad esempio, anche una cappella in cui non appaia nessuna ‘figura’ in senso tradizionale, ad eccezione del Crocifisso sull’altare, possa indurre a pregare e a meditare, non distraendo e non ottundendo le reazioni spirituali più dinamiche del fedele, questo è quanto si può e si deve fare. Padre Ruggeri sostiene che esiste, anche in Italia, a proposito di arte sacra, assai più libertà di quanto non si creda. Esistono vescovi illuminati, rettori di chiese sensibilissimi, rispettosi di un’epoca e delle concezioni di un artista; esistono soprattutto giovani sacerdoti e seminaristi che non partono mai condizionati dal preconcetto e sono disposti ad accettare ogni sincera esperienza, anche quella che può apparire la più avanzata. Se molti artisti non spingono, non cercano, non provocano (poiché anche l’arte sacra partecipa a quello ‘scandalo cristiano’ che coincide con la vita stessa del cristianesimo) ciò non dipende dalla mancanza di libertà, ma piuttosto dall’aridità, dalla sterilità, dall’impotenza di certi artisti, uomini di calligrafia, capaci di dettaglio ma non di concezioni organiche e universali, capaci soprattutto di rischiare in proprio, senza coinvolgere in partenza l’autorità.
In questo senso a Padre Ruggeri è indubbiamente servita l’esperienza dei suoi esordi di pittore in convento. Davanti ai suoi ‘mostri’, i suoi confratelli si strapparono subito le vesti, all’inizio. Erano troppo abituati a cappelle linde e soffici come camere da letto, a immagini di Cristo, della Vergine e dei Santi rosee, patetiche, lacrimogene, insomma giustificanti tutte le ambiguità di una pietà e di una liturgia più statica che dinamica, più passive che attive. Si arresero solo col tempo, sotto gli occhi i ‘mostri’ cominciarono a decifrarli, inquietati da certi segni nudi ed efficaci, da certe fiammate di colore che dicevano tante cose.
Oggi sono pochi a sorridere dell’opera di Padre Costantino; e non pochi ne sono fieri, senza darlo a vedere: un frate che ha incarichi d’intere cappelle, che vince due premi famosi, che espone in tutta l’Italia, è comunque un fatto almeno rispettabile. Ma soprattutto hanno subito, prima e poi, accettato, almeno in parte, il mondo stesso del frate artista. Questo significa che anche in ambienti preconcetti e negati in partenza – se non addirittura polemici – si può operare una chiarificazione, rivelando la ‘novità’ necessaria proprio là dove si stanno formando (o deformando) se non proprio i classici ‘committenti’ del nostro tempo, certo le autorità esecutive delle ‘commesse’. È importante notare, nell’esperienza conventuale di Padre Ruggeri, soprattutto il significato di un fenomeno del genere. Prima che le pietre e i cristalli, Padre Ruggeri ha plasmato, con anni di candida e felice pazienza, gli uomini più vicini. Ha quanto meno seminato in loro il dubbio che l’arte sacra finora accettata sia tutta ‘bella’.
Ma i ‘convertiti’ dall’arte di Padre Ruggeri non sono in grado, forse, di spiegare il motivo più intimo e profondo della loro ‘conversione’. Anche se sono frati minori, seguaci di San Francesco, è probabile che comprenderanno solo in seguito che una delle spiegazioni fondamentali del fenomeno del loro confratello sta proprio nell’essenza francescana della sua fatica e dello spirito che la anima: cioè nella povertà. È infatti nel confronto con la povertà cristiana e francescana quale forma di libertà interiore ed esteriore che Padre Ruggeri riconosce la forza spirituale del proprio tentativo, e la necessità essenziale di tutta l’arte sacra, in ogni tempo, ma soprattutto oggi. Padre Ruggeri è stato molti mesi nelle catacombe, a decifrare la natura simbolica e la forza espressiva degli essenziali simboli del giovane cristianesimo. Ha scritto – proprio su queste pagine – anche un documentatissimo saggio sui risultati della sua ricerca. Ha scoperto, fra l’altro, che la natura ‘cimiteriale’ delle catacombe imponeva per se stessa, nelle ornamentazioni artistiche, l’essenzialità, la suprema semplicità della vita a confronto con la morte nel segno della fede. Semplicità come povertà. E proprio perché quell’arte era semplice, alludeva con suprema efficacia al ‘dialogo’ fra Dio e il defunto, ma anche al ‘dialogo’ tra il defunto ed i vivi, e tra i vivi e Dio, cui il defunto li conduceva nella preghiera e nella speranza della Resurrezione. Il saggio di Padre Ruggeri finiva con queste precise parole: “Sulle pareti delle catacombe i primi cristiani hanno affidato un sorprendente patrimonio di preghiera, di gioia e di speranza a pochi segni scarni e disadorni, che non rivelano acutezza d’osservazione del mondo circostante, esuberante fantasia, preziosità cromatiche e arditezze compositive. Eppure questi segni sono trasfigurati da un ardore religioso, da un senso di perennità e di attualità tali da commuoverci e da trasportarci nella sfera del più puro misticismo. E non è forse questa possibilità e intensità di colloquio che rende contemporanee opere così lontane nel tempo?”.
Ecco la povertà come spogliamento del superfluo, come trasparenza di simbolismi, come essenzializzazione del mistero religioso, che essendo ‘ineffabile’ cioè inesprimibile nella sua totalità, esige, per essere espresso efficacemente, il ‘minimo’, non il ‘massimo’ dei mezzi espressivi. Da un colloquio con Padre Ruggeri ho potuto ricavare queste osservazioni, che trascrivo alla lettera, per il valore di spiegazione formale-liturgico-sociale che contengono e per la provocazione che, in totale serenità, sono in grado di determinare.
“Bisogna stare molto attenti: la chiesa di pietra può divenire spesso un ostacolo alla chiesa viva. Certe chiese ‘moderne’ (chiese alla moda!) possono compromettere per lungo tempo la penetrazione evangelica nella società contemporanea. I muri stessi della chiesa debbono predicare le beatitudini evangeliche: povertà, purezza, semplicità. È un’ingiustizia che vi siano chiese gigantesche, in certi quartieri, mentre immense periferie mancano di chiese povere. Dobbiamo badare più alla povertà radiosa delle nostre antiche, esemplari chiese, se vogliamo che l’uomo del nostro tempo ritrovi nella casa di Dio la sua stessa casa. E noi, che stiamo a difendere, spesso, addirittura la legittimità del lusso nella casa di Dio, col pretesto che Egli è padrone di tutte le cose. Come se Lui medesimo, in Cristo, non ci avesse dato il metro, l’esempio, lo stile medesimo, direi, di che cosa vuole, di come lo vuole, come esige che gli uomini gli rendano onore nel culto. Impariamo a onorarlo come Egli desidera, non come immaginiamo che desideri, ci avverte S. Giovanni Crisostomo”.
È in quest’ultimo pensiero che va cercata la ragione-forza di tutta l’attività artistica di Padre Ruggeri: si tratta di un tentativo appassionato di ricerca della stessa visuale di Dio circa il suo tempio, e circa la nuova liturgia cristiana, che non può essere più quella aurea e trionfalmente materiale del tempio ordinato da Dio stesso a Salomone nel Vecchio Testamento. Che cosa vogliamo dai nostri artisti? ‘Vogliamo – mi risponde Padre Ruggeri – delle chiese semplici, austere, vive e vere’.
Ed ecco l’intuizione che fa da base a tutta la concezione artistico liturgica di questo appassionato testimone dell’arte sacra: la luce. Un ritorno all’essenzialità dell’arte catacombale, con in più la luce. Chi conosce le vetrate di Mantova, di Varese, di Pioltello, ideate, montate e finite da Padre Ruggeri con le sue stesse mani, tutte su telai di ferro e cemento, in puri giochi di cromatismi di colore, sa che cosa egli voglia intendere con il principio stesso della sua modernità che suona appunto ‘con in più la luce’. In quelle vetrate non c’è una sola figura; si tratta soltanto di cristalli colorati presi direttamente alla sorgente, cioè alle colate delle vetrerie di Murano; sono stati contrapposti, ‘giocati’ secondo rapporti allusivi di luce e di colore in funzione della resa mistica dell’ambiente a cui fanno da parete, come a Mantova e a Varese. “La luce – continua Padre Ruggeri – è la grande conquista della nostra epoca; la chiesa dev’essere la casa stessa della luce. Molti miei amici artisti mi hanno detto, dopo essere entrati in chiese ‘moderne’ e brutte, che d’ora innanzi andranno a pregare nei boschi, o in riva al fiume. Non sono riuscito a dar loro torto. Abbiamo bisogno di ritrovare la semplicità, per ritrovare la pace ed essere capaci di gioia. Questa è moralità: nella casa di Dio, così intesa, tutto si manifesta nella sua autentica essenza. Il mattone sia mattone, il ferro sia ferro; il legno, legno; pietra la pietra; ed anche il cemento, questo parente povero delle altre materie, che però tanto vigorosamente esprime le ansie del nostro tempo, sia sé stesso. La povertà, anche da questo punto di vista, diventerà la legge risanatrice che sola può liberarci dall’inganno formale, e portare ogni cosa alla sua massima espressione, ed al miglior rendimento. La funzionalità liturgica ha senso solo se favorisce il colloquio e l’incontro dell’uomo con Dio. Questo luogo è terribile, è scritto nella Bibbia; ed ancora: Quanto sono amabili le tue tende!: solennità ‘terribile’ e ‘amabilità’ persuasiva: ecco il binomio inseparabile che dobbiamo armonizzare”. Da tutto questo è evidente, per chi conosce ciò che Padre Ruggeri ha già fatto, che il più e il meglio gli può essere consentito in futuro. Il sogno di Padre Ruggeri è infatti quello d’avere una chiesa a disposizione tutta per sé, in cui non doversi trovare condizionato da equivoche situazioni ambientali preesistenti. Ciò può essergli servito di stimolo in passato, ma non sarebbe che una limitazione in futuro. Il “sogno”, attualmente, per quanto io sappia, consiste soprattutto nella speranza d’avere a disposizione la futura cappella del Seminario Regionale di Bologna. Un nuovo contatto di questo religioso artista col mondo ecclesiastico più qualificato – e proprio in un’area coraggiosa e feconda come quella creata dal risveglio liturgico guidato dal Card. Lercaro – sarebbe un’occasione unica per questo pioniere della ‘nuova’ arte sacra. E un’opera come quella che egli concepisce non potrebbe non risolversi se non in felice ‘integrazione’, anche se indiretta, della pedagogia e della formazione religiosa ed estetica impartita nei seminari.
Uno dei problemi attuali di maggiore impegno, da parte di Padre Ruggeri è quello degli arredi della chiesa. La maggior parte di essi è palesemente grottesca, anacronistica, il contrario esatto della semplicità e della intensità che dovrebbero rivelare. Sarà anche questa un’esperienza interessante, che potrebbe rivoluzionare il settore più micidiale del cattivo gusto: quello della ‘grande paccottiglia’ costosa e trionfante. È tutto da rifare, in un certo senso: candelieri, paramenti, accessori.
Quando la gente ritroverà nel tempio cristiano la trasparenza delle cose, ricomincerà non soltanto a capire, ma ad amare, accettare e adorare il mistero di Dio. Solo allora la chiesa s’inserirà nel vivo drammatico e stimolante delle altre case degli uomini, senza apparire eccentrica, grottesca, come troppe volte risulta. Tornerà ad essere la casa dell’uomo amico di Dio, e di Dio amico dell’uomo.
Tutto ciò che comporta un ideale ed un impegno del genere, significa l’unica, vera, legittima ‘rivoluzione’ possibile, anche in Italia, sul versante dell’arte sacra. Occorrono uomini che facciano, che credano, che non aspettino gl’incoraggiamenti ed i crismi. Ma prima che una nuova legislazione canonica possa essere pronta per regolare i rapporti fra arte e culto, diamo ai legisti materia prima coraggiosa e viva per non codificare l’ovvio, il brutto, l’inutile, il pomposo.
Padre Ruggeri non è esente da critiche (non sarebbe un vero artista); e qui non si è voluto scendere all’esame appunto criticamente specifico della sua opera, del suo stile. Si è voluto segnalare piuttosto un “caso umano” di straordinario, polemico, interesse. Perché non è soltanto di idee che l’arte sacra ha bisogno in Italia: ha bisogno di uomini. Questo è certamente uno.
1964
Il rivoluzionario dell’arte sacra
“Orizzonti”, n. 37, 18 ottobre 1964
Padre Costantino Ruggeri si sdegna violentemente davanti al pessimo gusto dilagante in molte chiese. Allora le sue mani da manovale cominciano a volteggiare per fare dell’arte come l’intende lui: un ritorno alle catacombe, più un trionfo di luce e di colori. I suoi confratelli lo chiamano ‘il frate informale’, ma con un’ironia molto affettuosa, tanto per nascondere un’ammirazione che in questi anni è andata sempre più crescendo. Partito dalla scuola di Mario Sironi, Padre Costantino Ruggeri, un giovane francescano di pelo rosso e d’occhi chiari, dalle mani callose e dagli entusiasmi tenaci, è andato progressivamente accantonando la pittura – in cui riconosce tuttavia la sua vera vocazione artistica – per dedicarsi al problema complessivo e totale dell’arte sacra in Italia.
Padre Ruggeri scrive poco, e fa molto. Crede soprattutto ai fatti. Come non l’hanno lusingato eccessivamente due fra i maggiori premi italiani di pittura – il San Fedele ed il Marzotto – presi nel 1954 – così non lo deprimono affatto i confratelli, i fedeli, i critici che continuano tuttora, anche se sono sempre meno, a stracciarsi le vesti davanti alle sue opere. Ciò che gli sta a cuore è soprattutto fare. Davanti ai fatti, tutti debbono accettare una realtà, almeno discuterla.
Non è che Padre Costantino non soffra di robuste e violente indignazioni. Certa paccottiglia cattolica, certo pessimo gusto dilagante nelle nostre nuove e vecchie chiese, lo gettano in preda al furore. Allora si sfoga, con violenza salutarmente iconoclasta, contro chi se lo merita. Ma la bufera dura sempre poco. Di colpo il frate bresciano (è nato ad Adro, presso Brescia, nel 1925) cambia discorso, fa volteggiare le belle mani da manovale, e comincia un’altra musica. “Non serve nemmeno polemizzare. L’importante è di concludere qualcosa. Il pessimo gusto, l’adulterazione dell’arte sacra, dei muri, delle stesse suppellettili sacre – mi dice – non possono essere smantellati se non con delle chiese nuove e belle. Pazienza le vecchie chiese brutte; sono irrimediabili. Ma con le nuove dovremmo partire bene, dovremmo approfittare dell’occasione, tanto tenendo conto dell’evoluzione che ha raggiunto la sensibilità complessa dell’uomo del nostro tempo che accettando come spinta preziosa le riforme liturgiche dettate dal Concilio. Il Signore, nell’Apocalisse, dice che esige e intende fare ‘nuovi cieli e nuove terre’: bisognerebbe collaborare, cominciando a fare chiese belle, case dell’uomo e di Dio nello stesso tempo, chiese che non distraggano ma che aiutino a pregare, che puntino sul mistero aiutando l’uomo non a capirlo ma ad adorarlo con amore”.
“E tu – gli domando – ne hai già fatte di chiese come vorresti?”. “Proprio del tutto no: mi risponde – perché ho sempre avuto, finora, a che fare con ambienti prestabiliti, che ho accettato com’erano, potendo solo applicarvi e sperimentarvi il massimo dei miei punti di vista. Questo è avvenuto nella cappella e nella cripta del Seminario di Mantova, nella Cappella dello studio francescano di Varese, nella Chiesa di Pioltello, presso Milano, nella chiesa dell’Aeroporto di Linate. Non mi è stata ancora offerta la grande occasione di una chiesa tutta per me. Se davvero mi verrà affidata la cappella del nuovo Seminario Regionale di Bologna, penso che sarà per me un esperimento molto interessante. Soprattutto poi mi troverò a mio agio nelle opere che mi sono state affidate nella nuova grande chiesa che sta per sorgere a Milano in omaggio a Paolo VI: dovrei fare le porte, il pulpito, l’altare, il crocifisso, le suppellettili, le vetrate”. “Come mai ti sei deciso ad affrontare il problema nel suo complesso?”. “Francamente perché ero stanco, ed umiliato, di sentire miei ottimi amici dirmi che essendo entrati in certe chiese, avevano deciso di andare, d’ora in avanti, a pregare nei boschi o in riva al fiume. Certi miei amici, specialmente fra gli artisti, potranno essere incontentabili, ma è purtroppo vero che certe nostre chiese, vecchie o nuove, sono invarcabili, inguardabili, insopportabili. Inutilmente ricche, assurdamente false, totalmente capaci di scoraggiare chi cerca davvero Dio, sono un’educazione quotidiana al cattivo gusto, prima di tutto al cattivo gusto religioso. E peggio che mai se certi fedeli vi si trovano bene: vuol dire che il concetto che hanno di Dio si è già deformato. Credo che sia gente che, senza rendersene conto, dà del ‘Lei’ a Dio. Non serve a nulla studiare un altare nuovo, o fare dei bei candelieri, o osare un crocifisso davvero moderno, e magari inserire tutte queste cose in mezzo a tutte le altre assai brutte. Occorre affrontare intero e complesso il problema dell’arte sacra, accettare gli errori che si sono fatti, e farne motivi di umiltà davanti al mistero della fede e dell’arte. Prima che Chiesa e arte si possano completamente riconciliare, come ha auspicato Paolo VI il 7 maggio scorso nella Cappella Sistina, occorrerà che tanto gli uomini di chiesa che gli artisti espiino insieme i loro peccati di pigrizia, di cattivo gusto, di ipocrisia, forse anche di mancanza di fede. Uomini come Figini in architettura, come Minguzzi in scultura, come Manzù, come tanti altri, possono riaprire il discorso dell’arte, ma noi di chiesa dobbiamo preparare loro ambienti, locali, climi adatti a non farli tornare indietro”.
“Come riassumeresti l’arte sacra nuova?”. “Soprattutto come un ritorno alle Catacombe, con in più la luce. L’arte cristiana delle Catacombe è essenziale, ma non rozza: è la più raffinata, se si vuole, che esista. Molta dell’arte moderna più coraggiosa, si rifà alle Catacombe anche se non lo sa. Noi dovremmo imparare proprio a rendere semplice il mistero, adorabile l’ineffabile, aggiungendovi tutta la luce di cui siamo capaci. Le materie dall’arte catacombale tipiche dell’architettura del nostro tempo, come il cemento, il vetro, il ferro, consentono i giochi più arditi e legittimi per esprimere l’inesprimibile. Io l’ho scoperto con fatica, ma sono stato compensato di tutto. Nelle grandi vetrate che ho fatto a Mantova, a Varese, a Pioltello (intere pareti) non ho creato nemmeno una figura. Ma mi hanno detto tutti che si tratta di colori, di luce, di combinazioni liriche che aiutano a pregare. Ho trovato uomini fiduciosi ed intelligenti che si sono fidati di me, e questo mi ha aiutato più di ogni altra cosa. Il Vescovo di Mantova mi ha detto che le mie cose ‘stanno su’, che cioè aiutano a pregare, hanno una funzione stimolante e veramente liturgica. Ho montato con queste mani tonnellate e tonnellate di cristalli colorati, che sono andato personalmente a scegliere a Murano, davanti alle colate quotidiane. Non potevo avere consolazioni più grandi. Penso che anche senza tornare alle classiche figure, basta oggi la luce ad aiutare la nostra preghiera”.
“Questa della luce è uno dei moduli più appassionati dell’arte di Padre Ruggeri. Ha studiato nelle Catacombe la simbologia del cristianesimo neonato, ma l’ha subito applicata ad un trionfo di luce e di colori. Ha portato nei punti più luminosi del creato le conclusioni tratte nelle tenebre sacre delle Catacombe. Lui vorrebbe addirittura che l’altare fosse sullo sfondo di un vero paesaggio, tutto contemplato attraverso immensi vetri; sarebbe anche una prova per vedere se distrae o se aiuta. Ma vorrebbe rischiare. Per quanto lo riguarda, finora Padre Ruggeri ha fatto tutto da solo, tutto con le sue mani. Ha montato immensi telai di ferro, impastato quintali e quintali di cemento, modulato tonnellate di cristalli. Per altare non cerca combinazioni di marmi preziosi; sceglie piuttosto una roccia vera, non la squadra che appena, e poi la colloca al suo posto: non dev’essere infatti solo il simbolo del Calvario, la roccia nuda su cui il Signore s’è immolato? Altari senza tabernacolo, perché l’altare è l’ara del sacrificio, non il luogo della conservazione. È assurdo, per Padre Costantino, che, mentre si rinnova misticamente il Sacrificio di Cristo, Cristo sia già presente sacramentalmente sullo stesso altare. Così per il segno della croce. Padre Ruggeri vuole in un tempio una sola croce, grande, bella, eloquente, a cui faccia capo, com’è giusto, tutta la liturgia sacrificale della Chiesa. Basta con le crocette disseminate ovunque, sui muri, per terra, sui paramenti e sulle suppellettili, come se si dovesse curare l’inflazione del segno sacro. Non occorre benedire ciò che è benedetto, consacrare ciò che è già consacrato. Anche per la Via Crucis Padre Ruggeri la concepisce come itinerario preparatorio al sacrificio dell’altare, e la fa cominciare possibilmente fuori della chiesa, mentre la stazione della morte di Cristo in croce coincide con lo stesso altare. In una chiesa l’ha eseguita letteralmente per terra, davvero come una “strada”, sotto i piedi dei fedeli”.
“A quale criterio riferisci tutta questa tua necessità di semplificazioni?”. “Al mistero, alla virtù, al problema della povertà. Nemmeno l’arte sacra può oggi fare a meno di fare i conti con la povertà. Se è vero, come il Concilio ricorda, che la nostra Chiesa ‘è soprattutto la Chiesa dei poveri’, cominciamo a semplificare tutto nella povertà. Tutto diventerà più credibile, più sacro, più vero. Tutti i segni saranno più efficaci, le materie più trasparenti, i significati più immediati ed evidenti. Parlo specialmente delle chiese francescane, ma il discorso vale benissimo per tutte. E non si tratta solo di ragioni estetiche, ma anche spirituali. Il mistero di Dio non si deve presumere di esprimerlo col massimo della materia, soprattutto se preziosa, ma col minimo: mi sembra una legge elementare. E per dare forza a tutto questo, occorre tornare a credere alla povertà.
“In che senso?”. “Dando alle chiese il segno e la libertà della povertà. La chiesa di pietra può divenire un ostacolo alla ‘chiesa viva’ formata dalla comunità dei fedeli. Certe chiese moderne (chiese ‘alla moda’) possono compromettere ancora a lungo la penetrazione evangelica nella società contemporanea. Credo che i muri della chiesa debbano predicare essi stessi le beatitudini evangeliche: povertà, semplicità, purezza. Ad esempio, una chiesa ricca in un quartiere povero; vi può essere bestemmia più grave? Inevitabilmente, anche se non è stata costruita con quelle intenzioni, sembrerà la chiesa dei padroni. Certe chiese monumentali servono più la vanità degli uomini, la loro bramosia di potenza, la loro sete di denaro, che la gloria di Dio e la gioia dell’uomo. Non dovremmo dimenticare, almeno noi cristiani, che non è a caso che Dio ha scelto, nell’incarnazione, le realtà più umili, come sua carne, come sua dimora. I privilegi spirituali sono i più ridicoli, oltre che i più abominevoli. È abominevole che in certe periferie vi siano chiese ricchissime, mentre mancano le stesse case minime per i poveri. La casa di Dio deve essere ricca soprattutto di bellezza; nessun materiale prezioso può sostituire una bellezza che non c’è”.
“Non credi d’essere un utopista, a pensare e dire queste cose?”. “Credo di sì. Ma, se permetti, non diversamente, ad esempio, da come lo erano, nei primi secoli della Chiesa, san Basilio, san Girolamo, san Giovanni Crisostomo, che dissero le stesse cose. Io non mi vanto di inventarle, queste cose: le ripeto soltanto. Il ‘lusso’ della casa di Dio! Impariamo più ad onorarlo come desidera, che non come pensiamo che desideri. Vogliamo delle chiese povere e semplici, ma vive e vere; qui è la prova tanto per gli artisti che per i fedeli. Sfruttiamo soprattutto la luce, la grande conquista della nostra epoca”.
“Pensi di essere seguito?”. “E che cosa importa? Importa fare. Poi si hanno le conferme. Una, ad esempio, l’ho avuta quando ho visto le foto della luna scattate dal Ranger VII. Quei volumi, quelle ombre e quelle luci, io le avevo già trattate nelle pareti dei miei ultimi tabernacoli. Tu ne hai la prova da queste foto. Pensavo sempre ai ‘cieli nuovi’ dell’Apocalisse ed ecco la conferma. Non mi sembra senza significato. La chiesa deve avere d’altronde la sua funzionalità liturgica favorendo il colloquio e l’incontro fra Dio e l’uomo. E la povertà è la legge risanatrice che sola può liberare dall’inganno formale, e portare ogni cosa alla massima espressione e al massimo rendimento”.
E Padre Ruggeri se ne va. È di poche parole, ha parlato anche troppo. Ora riprende i suoi telai di ferro, i suoi cristalli allucinanti. Lo divora il bisogno di rendere sempre più efficace l’amicizia fra Dio e l’uomo, attraverso il mistero e il dono di un’arte che, per questo frate cocciuto, è ‘sacra’ solo se è sincera e povera, nelle intenzioni come nelle materie. C’è proprio da credere che se la ‘rivoluzione’ avverrà, nell’arte sacra italiana, una delle prime tappe sarà da considerare il convento francescano di Canepanova di Pavia, dove Padre Ruggeri ha portato prima lo scompiglio e poi lo stupore felice dei suoi stessi confratelli. Ciò che si scrive di lui ormai a raggio internazionale, ciò che lui stesso scrive spesso sulla rivista d’arte più coraggiosa d’Italia – Chiesa e quartiere -– induce a credere che, davvero, ‘questa rivoluzione s’ha da fare’.
1964
Il rivoluzionario dell’arte sacra
“Orizzonti”, n. 37, 18 ottobre 1964
Padre Costantino Ruggeri si sdegna violentemente davanti al pessimo gusto dilagante in molte chiese. Allora le sue mani da manovale cominciano a volteggiare per fare dell’arte come l’intende lui: un ritorno alle catacombe, più un trionfo di luce e di colori. I suoi confratelli lo chiamano ‘il frate informale’, ma con un’ironia molto affettuosa, tanto per nascondere un’ammirazione che in questi anni è andata sempre più crescendo. Partito dalla scuola di Mario Sironi, Padre Costantino Ruggeri, un giovane francescano di pelo rosso e d’occhi chiari, dalle mani callose e dagli entusiasmi tenaci, è andato progressivamente accantonando la pittura – in cui riconosce tuttavia la sua vera vocazione artistica – per dedicarsi al problema complessivo e totale dell’arte sacra in Italia.
Padre Ruggeri scrive poco, e fa molto. Crede soprattutto ai fatti. Come non l’hanno lusingato eccessivamente due fra i maggiori premi italiani di pittura – il San Fedele ed il Marzotto – presi nel 1954 – così non lo deprimono affatto i confratelli, i fedeli, i critici che continuano tuttora, anche se sono sempre meno, a stracciarsi le vesti davanti alle sue opere. Ciò che gli sta a cuore è soprattutto fare. Davanti ai fatti, tutti debbono accettare una realtà, almeno discuterla.
Non è che Padre Costantino non soffra di robuste e violente indignazioni. Certa paccottiglia cattolica, certo pessimo gusto dilagante nelle nostre nuove e vecchie chiese, lo gettano in preda al furore. Allora si sfoga, con violenza salutarmente iconoclasta, contro chi se lo merita. Ma la bufera dura sempre poco. Di colpo il frate bresciano (è nato ad Adro, presso Brescia, nel 1925) cambia discorso, fa volteggiare le belle mani da manovale, e comincia un’altra musica. “Non serve nemmeno polemizzare. L’importante è di concludere qualcosa. Il pessimo gusto, l’adulterazione dell’arte sacra, dei muri, delle stesse suppellettili sacre – mi dice – non possono essere smantellati se non con delle chiese nuove e belle. Pazienza le vecchie chiese brutte; sono irrimediabili. Ma con le nuove dovremmo partire bene, dovremmo approfittare dell’occasione, tanto tenendo conto dell’evoluzione che ha raggiunto la sensibilità complessa dell’uomo del nostro tempo che accettando come spinta preziosa le riforme liturgiche dettate dal Concilio. Il Signore, nell’Apocalisse, dice che esige e intende fare ‘nuovi cieli e nuove terre’: bisognerebbe collaborare, cominciando a fare chiese belle, case dell’uomo e di Dio nello stesso tempo, chiese che non distraggano ma che aiutino a pregare, che puntino sul mistero aiutando l’uomo non a capirlo ma ad adorarlo con amore”.
“E tu – gli domando – ne hai già fatte di chiese come vorresti?”. “Proprio del tutto no: mi risponde – perché ho sempre avuto, finora, a che fare con ambienti prestabiliti, che ho accettato com’erano, potendo solo applicarvi e sperimentarvi il massimo dei miei punti di vista. Questo è avvenuto nella cappella e nella cripta del Seminario di Mantova, nella Cappella dello studio francescano di Varese, nella Chiesa di Pioltello, presso Milano, nella chiesa dell’Aeroporto di Linate. Non mi è stata ancora offerta la grande occasione di una chiesa tutta per me. Se davvero mi verrà affidata la cappella del nuovo Seminario Regionale di Bologna, penso che sarà per me un esperimento molto interessante. Soprattutto poi mi troverò a mio agio nelle opere che mi sono state affidate nella nuova grande chiesa che sta per sorgere a Milano in omaggio a Paolo VI: dovrei fare le porte, il pulpito, l’altare, il crocifisso, le suppellettili, le vetrate”. “Come mai ti sei deciso ad affrontare il problema nel suo complesso?”. “Francamente perché ero stanco, ed umiliato, di sentire miei ottimi amici dirmi che essendo entrati in certe chiese, avevano deciso di andare, d’ora in avanti, a pregare nei boschi o in riva al fiume. Certi miei amici, specialmente fra gli artisti, potranno essere incontentabili, ma è purtroppo vero che certe nostre chiese, vecchie o nuove, sono invarcabili, inguardabili, insopportabili. Inutilmente ricche, assurdamente false, totalmente capaci di scoraggiare chi cerca davvero Dio, sono un’educazione quotidiana al cattivo gusto, prima di tutto al cattivo gusto religioso. E peggio che mai se certi fedeli vi si trovano bene: vuol dire che il concetto che hanno di Dio si è già deformato. Credo che sia gente che, senza rendersene conto, dà del ‘Lei’ a Dio. Non serve a nulla studiare un altare nuovo, o fare dei bei candelieri, o osare un crocifisso davvero moderno, e magari inserire tutte queste cose in mezzo a tutte le altre assai brutte. Occorre affrontare intero e complesso il problema dell’arte sacra, accettare gli errori che si sono fatti, e farne motivi di umiltà davanti al mistero della fede e dell’arte. Prima che Chiesa e arte si possano completamente riconciliare, come ha auspicato Paolo VI il 7 maggio scorso nella Cappella Sistina, occorrerà che tanto gli uomini di chiesa che gli artisti espiino insieme i loro peccati di pigrizia, di cattivo gusto, di ipocrisia, forse anche di mancanza di fede. Uomini come Figini in architettura, come Minguzzi in scultura, come Manzù, come tanti altri, possono riaprire il discorso dell’arte, ma noi di chiesa dobbiamo preparare loro ambienti, locali, climi adatti a non farli tornare indietro”.
“Come riassumeresti l’arte sacra nuova?”. “Soprattutto come un ritorno alle Catacombe, con in più la luce. L’arte cristiana delle Catacombe è essenziale, ma non rozza: è la più raffinata, se si vuole, che esista. Molta dell’arte moderna più coraggiosa, si rifà alle Catacombe anche se non lo sa. Noi dovremmo imparare proprio a rendere semplice il mistero, adorabile l’ineffabile, aggiungendovi tutta la luce di cui siamo capaci. Le materie dall’arte catacombale tipiche dell’architettura del nostro tempo, come il cemento, il vetro, il ferro, consentono i giochi più arditi e legittimi per esprimere l’inesprimibile. Io l’ho scoperto con fatica, ma sono stato compensato di tutto. Nelle grandi vetrate che ho fatto a Mantova, a Varese, a Pioltello (intere pareti) non ho creato nemmeno una figura. Ma mi hanno detto tutti che si tratta di colori, di luce, di combinazioni liriche che aiutano a pregare. Ho trovato uomini fiduciosi ed intelligenti che si sono fidati di me, e questo mi ha aiutato più di ogni altra cosa. Il Vescovo di Mantova mi ha detto che le mie cose ‘stanno su’, che cioè aiutano a pregare, hanno una funzione stimolante e veramente liturgica. Ho montato con queste mani tonnellate e tonnellate di cristalli colorati, che sono andato personalmente a scegliere a Murano, davanti alle colate quotidiane. Non potevo avere consolazioni più grandi. Penso che anche senza tornare alle classiche figure, basta oggi la luce ad aiutare la nostra preghiera”.
“Questa della luce è uno dei moduli più appassionati dell’arte di Padre Ruggeri. Ha studiato nelle Catacombe la simbologia del cristianesimo neonato, ma l’ha subito applicata ad un trionfo di luce e di colori. Ha portato nei punti più luminosi del creato le conclusioni tratte nelle tenebre sacre delle Catacombe. Lui vorrebbe addirittura che l’altare fosse sullo sfondo di un vero paesaggio, tutto contemplato attraverso immensi vetri; sarebbe anche una prova per vedere se distrae o se aiuta. Ma vorrebbe rischiare. Per quanto lo riguarda, finora Padre Ruggeri ha fatto tutto da solo, tutto con le sue mani. Ha montato immensi telai di ferro, impastato quintali e quintali di cemento, modulato tonnellate di cristalli. Per altare non cerca combinazioni di marmi preziosi; sceglie piuttosto una roccia vera, non la squadra che appena, e poi la colloca al suo posto: non dev’essere infatti solo il simbolo del Calvario, la roccia nuda su cui il Signore s’è immolato? Altari senza tabernacolo, perché l’altare è l’ara del sacrificio, non il luogo della conservazione. È assurdo, per Padre Costantino, che, mentre si rinnova misticamente il Sacrificio di Cristo, Cristo sia già presente sacramentalmente sullo stesso altare. Così per il segno della croce. Padre Ruggeri vuole in un tempio una sola croce, grande, bella, eloquente, a cui faccia capo, com’è giusto, tutta la liturgia sacrificale della Chiesa. Basta con le crocette disseminate ovunque, sui muri, per terra, sui paramenti e sulle suppellettili, come se si dovesse curare l’inflazione del segno sacro. Non occorre benedire ciò che è benedetto, consacrare ciò che è già consacrato. Anche per la Via Crucis Padre Ruggeri la concepisce come itinerario preparatorio al sacrificio dell’altare, e la fa cominciare possibilmente fuori della chiesa, mentre la stazione della morte di Cristo in croce coincide con lo stesso altare. In una chiesa l’ha eseguita letteralmente per terra, davvero come una “strada”, sotto i piedi dei fedeli”.
“A quale criterio riferisci tutta questa tua necessità di semplificazioni?”. “Al mistero, alla virtù, al problema della povertà. Nemmeno l’arte sacra può oggi fare a meno di fare i conti con la povertà. Se è vero, come il Concilio ricorda, che la nostra Chiesa ‘è soprattutto la Chiesa dei poveri’, cominciamo a semplificare tutto nella povertà. Tutto diventerà più credibile, più sacro, più vero. Tutti i segni saranno più efficaci, le materie più trasparenti, i significati più immediati ed evidenti. Parlo specialmente delle chiese francescane, ma il discorso vale benissimo per tutte. E non si tratta solo di ragioni estetiche, ma anche spirituali. Il mistero di Dio non si deve presumere di esprimerlo col massimo della materia, soprattutto se preziosa, ma col minimo: mi sembra una legge elementare. E per dare forza a tutto questo, occorre tornare a credere alla povertà.
“In che senso?”. “Dando alle chiese il segno e la libertà della povertà. La chiesa di pietra può divenire un ostacolo alla ‘chiesa viva’ formata dalla comunità dei fedeli. Certe chiese moderne (chiese ‘alla moda’) possono compromettere ancora a lungo la penetrazione evangelica nella società contemporanea. Credo che i muri della chiesa debbano predicare essi stessi le beatitudini evangeliche: povertà, semplicità, purezza. Ad esempio, una chiesa ricca in un quartiere povero; vi può essere bestemmia più grave? Inevitabilmente, anche se non è stata costruita con quelle intenzioni, sembrerà la chiesa dei padroni. Certe chiese monumentali servono più la vanità degli uomini, la loro bramosia di potenza, la loro sete di denaro, che la gloria di Dio e la gioia dell’uomo. Non dovremmo dimenticare, almeno noi cristiani, che non è a caso che Dio ha scelto, nell’incarnazione, le realtà più umili, come sua carne, come sua dimora. I privilegi spirituali sono i più ridicoli, oltre che i più abominevoli. È abominevole che in certe periferie vi siano chiese ricchissime, mentre mancano le stesse case minime per i poveri. La casa di Dio deve essere ricca soprattutto di bellezza; nessun materiale prezioso può sostituire una bellezza che non c’è”.
“Non credi d’essere un utopista, a pensare e dire queste cose?”. “Credo di sì. Ma, se permetti, non diversamente, ad esempio, da come lo erano, nei primi secoli della Chiesa, san Basilio, san Girolamo, san Giovanni Crisostomo, che dissero le stesse cose. Io non mi vanto di inventarle, queste cose: le ripeto soltanto. Il ‘lusso’ della casa di Dio! Impariamo più ad onorarlo come desidera, che non come pensiamo che desideri. Vogliamo delle chiese povere e semplici, ma vive e vere; qui è la prova tanto per gli artisti che per i fedeli. Sfruttiamo soprattutto la luce, la grande conquista della nostra epoca”.
“Pensi di essere seguito?”. “E che cosa importa? Importa fare. Poi si hanno le conferme. Una, ad esempio, l’ho avuta quando ho visto le foto della luna scattate dal Ranger VII. Quei volumi, quelle ombre e quelle luci, io le avevo già trattate nelle pareti dei miei ultimi tabernacoli. Tu ne hai la prova da queste foto. Pensavo sempre ai ‘cieli nuovi’ dell’Apocalisse ed ecco la conferma. Non mi sembra senza significato. La chiesa deve avere d’altronde la sua funzionalità liturgica favorendo il colloquio e l’incontro fra Dio e l’uomo. E la povertà è la legge risanatrice che sola può liberare dall’inganno formale, e portare ogni cosa alla massima espressione e al massimo rendimento”.
E Padre Ruggeri se ne va. È di poche parole, ha parlato anche troppo. Ora riprende i suoi telai di ferro, i suoi cristalli allucinanti. Lo divora il bisogno di rendere sempre più efficace l’amicizia fra Dio e l’uomo, attraverso il mistero e il dono di un’arte che, per questo frate cocciuto, è ‘sacra’ solo se è sincera e povera, nelle intenzioni come nelle materie. C’è proprio da credere che se la ‘rivoluzione’ avverrà, nell’arte sacra italiana, una delle prime tappe sarà da considerare il convento francescano di Canepanova di Pavia, dove Padre Ruggeri ha portato prima lo scompiglio e poi lo stupore felice dei suoi stessi confratelli. Ciò che si scrive di lui ormai a raggio internazionale, ciò che lui stesso scrive spesso sulla rivista d’arte più coraggiosa d’Italia – Chiesa e quartiere -– induce a credere che, davvero, ‘questa rivoluzione s’ha da fare’.
Padre Costantino nella sua cella del convento di Canepanova, Pavia